Skip to content Skip to sidebar Skip to footer
FOCUS_01_STRAFELLA

Il dottore ivan strafella racconta la sua drammatica esperienza di malato

Premessa: sono vivo, per questo ringrazio tutte le persone che ho incontrato in questo lungo incubo e che hanno concorso alla mia salvezza. Ringrazio il sovrannaturale, anche questa volta mi ha risparmiato. Infine ringrazio chi mi sta vicino, per il supporto infinito, anche se io le ho portato in casa quel virus che avrebbe potuto uccidere me e lei. Un pensiero a coloro che, purtroppo, ho inconsapevolmente contagiato.

L’incubo inizia probabilmente nell’ultima settimana di febbraio, nell’Ospedale in cui lavoro da quasi 13 anni, dove ho incontrato quel mostro invisibile che, trasportato da chissà chi, mi è entrato dentro; non ho un volto specifico in mente, ho tanti profili indefiniti di pazienti, di colleghi, di infermieri e di ausiliari a cui non riesco a dare un nome; alla fine, da chi sono stato infettato ha poca importanza, ha molta importanza chi potrei io aver infettato e quindi la ricostruzione dei miei contatti fatta con il collega dell’ufficio di prevenzione. Ora, dopo che alcuni colleghi hanno eseguito l’esame degli anticorpi, ho una certezza, il 24 febbraio non ero contagioso.

In quella ultima settimana di febbraio, le uniche misere indicazioni per il personale sanitario erano di tenere la mascherina chirurgica sul viso e lavarsi o disinfettarsi spesso le mani. Fuori la vita scorreva come sempre, eppure il virus, quel virus, c’era; noi, però, continuavano a vivere come sempre. Al nord l’epidemia stava cominciando a colpire duro, ogni giorno in TV c’era un bollettino di guerra, ma questo sembrava interessarci molto poco, ci sentivamo distanti ed estranei al problema, a completare il quadro, la nostra natura del fare tutto all’ultimo minuto, solo se costretti.

Nel nostro limbo di realtà ovattata, abbiamo continuato a pensare che sarebbe stato difficile che quel virus potesse entrare nei nostri bar, nelle nostre case, nei nostri ospedali, dentro di noi. Eppure nei Pronto Soccorso dei nostri ospedali, a fine gennaio-inizio febbraio, abbiamo notato polmoniti ‘strane’ che ora sappiamo, con molta probabilità, cosa fossero. Il virus era già tra noi, stava urlando la sua presenza ma noi siamo stati sordi e ciechi e gli abbiamo permesso di diffondersi ed invaderci senza opporre la pur minima resistenza; noi operatori sanitari siamo stati lasciati soli a combattere un nemico poco riconoscibile, molto pericoloso e subdolo; anche chi doveva proteggerci, organizzarci e dare linee guida, ci ha abbandonati e ha preferito nascondersi, se non schierarsi apertamente con il virus, negando anche l’esecuzione dei tamponi.

La fame d’aria, l’ambulanza, la corsa verso l’ospedale di galatina

Io ho proseguito il mio lavoro fino a sabato 29 febbraio. Quella sera, con mia moglie, sono stato a cena con dei cari amici e, inconsciamente, ho messo a rischio la loro vita e quella dei loro figli. Poi sono andato a letto. Mi svegliai improvvisamente nelle prime ore di domenica 1 marzo, con un forte mal di testa, senso di spossatezza e diarrea; sono un cefalgico, ho preso qualcosa e sono tornato a letto, nessun miglioramento; nei giorni successivi, vissuti rinchiuso in casa a letto, i sintomi si sono accentuati con l’aggiunta di iperpiressia, tosse e disgeusia; non sono più tornato al lavoro.

Dopo tante mie insistenze e nonostante i dinieghi ricevuti poiché non vi erano le indicazioni, sono riuscito ad eseguire un tampone mercoledì 4 marzo, ho saputo di essere positivo il 5 marzo; nel frattempo i valori della mia saturimetria cominciano a scendere fino al 90%. Avevo terrore di lasciare sola mia moglie, anche lei positiva al tampone, sola in casa con la sua mamma gravemente ammalata.

Comincia cosi il mio incubo; sicuramente meno terribile se paragonato alle tante storie che si sono sentite sui media, ma che ha lasciato in me un segno indelebile e nella mia famiglia una rabbia difficile da nascondere per essere stato dimenticato dalle istituzioni e quella parte del sistema sanitario di cui si fa parte, che pure si professava ‘amico’. Le eccezioni ci sono state naturalmente, come una cara amica infermiera che lavora presso il distretto di Copertino, a loro manifesto assieme alla mia famiglia profonda gratitudine e stima.
Stessi forti sentimenti per tutti gli amici e familiari che senza limiti hanno aiutato la mia famiglia e me a superare questo tunnel buio e doloroso.

Lunedi 9 marzo, non riuscivo più a respirare bene, la fame d’aria diveniva, ora dopo ora, sempre più ingravescente, ero tachipnoico, tachicardico e cominciavo ad agitarmi. All’incirca alle ore 18.00 cedo alle insistenze di mia moglie e chiamo il 118. Arrivata l’ambulanza, ne discendono anonimi operatori sanitari completamente rivestiti dai dispositivi di protezione individuali che, per i successivi 21 giorni saranno per me le sole figure con cui interagire, oltre ai compagni di sventura che ho incontrato. Mentre prendo posto sulla barella nell’ambulanza, riconosco un vecchio amico infermiere e tanto basta per sentirmi più protetto; intanto il portellone dell’ambulanza si chiude e lontano intravedo il volto di mia moglie in penombra su cui era evidente la paura e il dolore.

Durante il trasporto verso l’Ospedale di Galatina, la mia razionalità provava a estraniarmi dalla realtà, ma la fame d’aria prendeva il sopravvento spegnendo qualsiasi pensiero.
A Galatina ho eseguito gli esami ematochimici, l’EGA e la TAC torace che evidenziò una polmonite interstiziale. La mia attesa in Pronto soccorso si prolungò per oltre due ore, rinchiuso in una stanza con aspirazione forzata e cominciò a palesarsi la realtà dei giorni a venire: ero un appestato pericolosissimo per la vita degli altri, con cui rimanere a contatto il minimo indispensabile. L’unica comunicazione con l’esterno era il segno del pollice in alto che di tanto in tanto l’infermiere in turno mi faceva; io rispondevo nello stesso modo, altro non mi era permesso.

Improvvisamente, mi avvertirono che, per le mie condizioni, sarei stato trasferito presso il reparto infettivi di Lecce; ora la paura sopravanzava quel poco di razionalità che ancora c’era in me e l’unico mio atto era respirare avidamente l’ossigeno che la mascherina mi concedeva. Poi arrivò la barella ad alto bio-contenimento, mi fecero prendere posto e iniziò il viaggio verso Lecce. Per i successivi 20 minuti il mio orizzonte visivo è stato il tetto dell’ambulanza che mi ha trasportato, filtrato dalla struttura plastica della barella, nessuno affianco a me se non la bombola di ossigeno che mi assicurava una discreta ossigenazione. Poi, l’ambulanza si fermò, l’autista aprì le porte posteriori e il soffitto cambiò, per un attimo fugace ho visto il cielo, poche stelle ma mi è sembrato bellissimo, come non mai … infine il Reparto Infettivi di Lecce.

Entrai in una stanza e finalmente mi tirarono fuori da quella barella, indispensabile, ma non proprio comoda e rassicurante per chi è dentro; ero circondato da anonime tute integrali bianche con mascherine e occhiali protettivi, gli occhi come unico collegamento. C’era un altro paziente, anche lui affetto da coronavirus, giovane e del mio stesso paese, che era li da tempo.
Mi distesi finalmente su un letto, iniziai subito la terapia e quando ebbi la necessità di utilizzare il bagno, si manifestò violentemente la mia nuova condizione a cui da medico, con tanti anni di sevizio, non avevo mai pensato: paziente con dignità azzerata. Al ritorno al letto la dispnea importate mi ricordò anche le mie precarie condizioni cliniche.
Ero stanchissimo, dispnoico e nonostante il gorgogliare dell’ossigeno, il continuo tossire del mio compagno di stanza e le sue telefonate interminabili a qualsiasi ora e ad alta voce, sprofondai nelle braccia di morfeo.

IL TEMPO NON PASSA MAI TRA TERAPIA E LUNGHE ATTESE

La mattina successiva, e così per i giorni seguenti, sveglia all’alba, prelievi, EGA, rilevamento parametri e poi l’attesa di rito della colazione e della terapia, che diventeranno appuntamenti fissi e molto attesi, unico segno di impegno in un monotono trascorrere della giornata, segregato in una piccola stanza. Gli altri appuntamenti col cibo, termine esagerato in quella circostanza, li ho rimossi per un importante vizio di forma di quel cibo, altra dimostrazione della perdita di dignità di un paziente.

Per fortuna esiste la tecnologia, il cellulare rappresentava l’unica possibilità di collegamento con l’esterno, anche se le informazioni che giungevano non erano, per noi pazienti, incoraggianti. Parlare era quasi impossibile, la dispnea, la tosse e la costante erogazione di ossigeno, rendevano le comunicazioni molto difficoltose; io però ci provavo sempre, anche se alla fine i messaggi erano la salvezza, avevo lasciato in casa mia moglie infetta e con importanti sintomi respiratori; lei però ha resistito a tutto, anche all’abbandono delle strutture sanitarie territoriali, per salvare sua madre.

Giovedì 12 marzo, le mie condizioni, cominciarono a migliorare; questa nuova situazione mi fece scoprire che per i pazienti è anche difficile fare una doccia; fa niente, stavo migliorando e improvvisamente mi accorsi che dalla grande finestra di quella stanza si ammirano dei tramonti stupendi, impreziositi dal gioco di nuvole che ad una certa ora si coloravano di tanti toni riproducendo strane forme a cui la fantasia riusciva a collegare il vissuto.

Intanto i parenti, gli amici e anche i pazienti, inondavano di messaggi il mio cellulare, qualcuno ha provato anche a telefonare, ma sono stato costretto a rifiutare la cortesia, non ero ancora in grado e il poco fiato lo riservavo ai miei affetti più stretti. Scoprirò molto tempo dopo la difficoltà, nei primi giorni di ricovero, anche per mia moglie, anche lei medico, di recuperare informazioni attendibili sulle mie condizioni cliniche, situazione che distribuisce il mancato riconoscimento della dignità dei pazienti, anche ai loro familiari.
Domenica 15 marzo, il responsabile del reparto mi fa sapere con una telefonata, che le mie condizioni sono buone e stabili e che sarei stato trasferito a San Cesario.
In tutta fretta, raccolsi le mie cose e mi preparai al trasferimento.

Attorno a mezzogiorno arrivò la barella ad alto bio-contenimento, diversa dalla prima e, forse, con una ventilazione ridotta in confronto alla prima in cui ero stato trasportato; salutai il compagno di stanza e presi posto all’interno. Con prepotenza si manifestò, ancora una volta, la condizione miserrima di un paziente, specie in questi tempi di coronavirus, infatti iniziò una discussione tra l’autista e il personale sanitario che durò almeno 20 minuti, mentre io inutilmente mi lamentavo per quella inutile attesa rinchiuso in una specie di scafandro poco ventilato. La distanza Fazzi – San Cesario è veramente minima, ma quel viaggio mi è sembrato interminabile, prima della liberazione in una stanza molto più ampia della precedente e senza alcun compagno di stanza.

La finestra dava sul retro dell’ospedale e la vista esterna rivelava tutta la povertà e l’incuria di buona parte delle case intorno. Quei primi giorni al ‘Galateo’ sono stati comunque molto tranquillizzanti, vuoi per le mie condizioni cliniche in continuo miglioramento, vuoi per i cibi finalmente caldi e non scotti, vuoi per l’essere riuscito, finalmente, anche se con qualche problema, a fare una doccia; a parte scoprire, andando in bagno, i soliti problemi di dignità negata, e le discussioni con i colleghi che mi avevano in cura, quando non ero d’accordo sulle mie terapie; purtroppo è molto difficile per noi medici fare i pazienti.

La contentezza è stata poi sostituita dalla delusione, a metà settimana, per il tampone dubbio e poi per l’arrivo di un altro paziente come compagno di stanza; persona anziana, con numerosi problemi clinici tra cui l’inversione del ritmo sonno veglia. Il lunedi 23 marzo eseguì una TAC polmonare di controllo che purtroppo smorzò completamente i miei entusiasmi sul presunto miglioramento anche se oramai non ero più dipendente per la mia respirazione dalla mascherina per l’ossigeno e avevo deciso di non far eseguire più su di me alcun esame ematochimico o EGA; saturavo costantemente in aria ambiente 97- 98%.

Quello stesso giorno, un collega mosso da compassione nel vedermi distrutto dalla convivenza in stanza con il difficoltoso ma simpatico vecchietto, vista una dimissione in corso, decise di spostarmi in una piccola stanzetta singola. Anche se può sembrare un atto superfluo ai più, io ero al settimo cielo.
La nuova piccola stanza, molto fredda, aveva una grande finestra che dava sull’ingresso dell’ospedale e una finestra che mi ridava la possibilità di ammirare i tramonti; aveva anche un bagnetto con doccia, incredibile, pensai. Questo idillio con la struttura durò solo due ore!

Scoprii che non vi erano le manovelle per abbassare una tapparella e l’altra era completamente bloccata e anche la tenda non scorreva e mi avrebbe esposto alla luce del lampione posto a pochi metri. In bagno l’acqua calda era solo tiepida e lo scarico del bagno funzionava solo una volta ogni 20 minuti durante i quali emetteva un rumore continuo. In aggiunta lo scarico del bagno della stanza affianco, che avevo dietro il muro posto alla testa del letto, scaricava in continuazione. Un bell’ambiente, ideale per un ammalato. Cominciava ad assalirmi il dubbio di essere passato dalla padella alla brace.

Il dubbio scomparve completamente poco dopo: i posti letto del Galateo erano saturi e, avendo necessità, hanno ricoverato in sovra numero nella mia piccola stanza!
Questo quadro idilliaco raggiunse il suo punto più alto a metà dell’ultima settimana di marzo, il giorno in cui le temperature improvvisamente crollarono attorno a 0 gradi di notte: i termosifoni si ruppero e così rimasero per circa 30 ore; la stanza già fredda di suo, divenne una specie di cantina in cui tenere i salumi; quella notte fece così freddo che, nonostante le doppie coperte e la tuta di pile, anche i pensieri erano gelati.

Per mia fortuna, quel mostro che mi era entrato dentro e per poco non mi accompagna sulla barca di Caronte fino all’Ade, decide di abbandonarmi e cosi in 5 giorni produssi due tamponi naso faringei negativi al coronavirus. Lunedi 1 aprile, mi viene comunicato la mia dimissione.
Per un attimo ho pensato ad un pesce d’aprile, ma poi ho capito che finalmente sarei potuto tornare a casa mia, dalla mia famiglia, e forse, dai miei parenti e amici. Una fortissima emozione mi pervase e quasi non riuscivo a comunicare col telefono l’evento.

Poi mi fu consegnata la dimissione e finalmente tornai libero … quasi, c’era ancora la quarantena da trascorrere, ma è stata meravigliosa come la prima doccia calda e la pasta al pomodoro.

 

 

 

FOCUS_02_DR_IVAN_STRAFELLA
Dr. Strafella Ivan
medico anestesista presso l’ospedale di Copertino

 

Show CommentsClose Comments

Leave a comment