L’EPIDEMIA DA COVID E LE SFIDE PER UNA PROFESSIONE SEMPRE IN PRIMA LINEA
Tra le pieghe di pomeriggi perduti in viaggi virtuali, proposti dal web o dalla memoria, l’immagine di una splendida scultura giovanile di Bernini conservata nella Galleria Borghese sembra rappresentare in maniera compiuta la nostra cultura occidentale e il suo viaggio nella storia. Enea fugge da Troia in fiamme, stringendo il figlioletto Ascanio e portando sulle spalle il vecchio padre Anchise il quale, in un plastico crescendo elicoidale, porta in salvo i Penati.
Nel dramma che stiamo vivendo si sta consumando un altro dramma culturale e sociale. Nonostante che la nostra società sia “vecchia”, con un’età media progressivamente innalzata dalla denatalità (per ipo fertilità e insicurezza sociale) e da migliori trattamenti e strategie verso le maggiori patologie e le cronicità, tuttavia la nostra non è una società “per” vecchi.
UNA SOCIETA’ SEMPRE PIU’ VECCHIA MA NON PER VECCHI
Quando vengono conferiti gli impietosi dati dell’epidemia da Covid, sistematicamente in maniera rassicurante si precisa che i deceduti erano in percentuali altissime anziani. Ultraottantenni, quasi a sottintendere che l’estrema conseguenza del morbo non è poi così grave. O comunque, non riguarda prevalentemente “noi”, soggetti forti (salvo poi essere smentiti).
Allorquando si è enfatizzato il modello anglosassone basato sull’immunità di gregge, si è affermato che si doveva accettare l’idea di registrare numerosi decessi. Ma riguardando le persone più anziane, anche tale evenienza (insieme agli effetti determinati da un look down assente o più breve) avrebbe comportato paradossalmente (al di là del cinismo) dei vantaggi economici e sociali. Ossia, una minore dispersione di risorse destinate a cittadini con maggiori fragilità (cioè minore riserva biologica e aspettativa di vita). Gli impegni economici per pensione, sanità, strutture ad essi dedicate potevano invece essere indirizzati più proficuamente ad una platea di cittadini giovani e attivi.
Abbiamo inizialmente individuato le maggiori responsabilità della rapidissima diffusione pandemica a ritardi diagnostici (colposi o dolosi). Ma soprattutto alla mobilità che declina la globalizzazione mondiale. Invece scopriamo che i focolai in Italia erano presenti da tempo. Ed inoltre, essi erano alimentati oltre che da manifestazioni sportive, da comunità di anziani, che non si muovevano oltre gli angusti recinti di RSA. Silenziose vittime della morte portata, senza che fossimo in grado di assicurare loro, con colpevole superficialità, indifferenza se non con connivenza con inconfessati interessi, la protezione che silenziosamente ci chiedevano.
Sfilano ancora accusatorie le immagini di camion militari colme di bare, private dell’estremo saluto…Il vecchio (ancora ricorre questo aggettivo/sostantivo) continente, l’Europa è colpita al cuore e scricchiola, balbettando risposte contraddittorie, non trovando la sintesi tra la categoria Stato, prevalente secondo alcuni, Società secondo altri (impostazione “cinese”) o la centralità dell’Uomo/Cittadino nella tradizione umanistico-cristiana.
Eppure proprio questi giorni di forzata segregazione potrebbero farci riflettere su una realtà diversa, che spesso ci è sfilata superficialmente davanti. Quante volte abbiamo trascorso feste primaverili socializzando con amici, dopo un fugace saluto (magari solo telefonico) ai nostri “cari” anziani che rimanevano soli in casa. Oggi sappiamo meglio cosa vuol dire rimanere prigionieri delle proprie cose, dei propri ricordi, delle paure, delle fragilità.
Quanti di noi non vivono la condizione della quarantena o non sono ricoverati, hanno la “fortuna” di vivere una sorta di normalità che il nostro lavoro – sebbene straordinario ogni giorno – ci assicura. Ormai dappertutto sentiamo ripetere, quasi un rituale mantra, che “dopo nulla sarà uguale a prima”, ma in ogni viaggio (e quello che stiamo vivendo incide un solco profondo nella storia) è necessario sapere da dove partire e verso cosa arrivare.
UNO STRAORDINARIO INNO ALLA VITA E ALLA SOLIDARIETA’
Ecco perché i vecchi sono indispensabili. Come i bambini con i quali sono legati da un sottile filo di sintonia, speranza per loro, risorsa e forza per noi, per la opportunità di trasmettere conoscenze e tradizioni, saperi e valori. Riferimento e prospettive, ricordi e tenerezza, memoria e compassione. Solo queste possono rappresentare la stella polare che può guidarci in questo viaggio complesso.
Tuttavia, nei momenti più cupi si è aperto non solo tra noi, ma anche nella società civile, un dibattito a mezza voce, smorzato da remore morali, ma implacabile nel dramma della scelta: uno dei principi della medicina delle catastrofi prevede che nell’emergenza e nella contingenza delle risorse organizzative è lecito optare per offrire una chance di sopravvivenza solo a vantaggio del paziente critico più giovane rispetto a quello anziano o, addirittura determinare un cut-off dell’intensità di cure solo sino ad una certa età.
A ben pensarci però questo concetto, in un certo senso eugenetico, ha due criticità. La prima è che si attribuisce un valore diverso alla vita; la condizione iniziale di forza e giovinezza come valore prevalente e quasi scontato sulla fragilità e vecchiaia, condannando chi ha meno chance. La seconda è la gravosa responsabilità onnipotente e solitaria della scelta di un Medico, appena mitigata da un improbabile protocollo, in realtà comunque figlio della cultura “dello scarto”.
Una considerazione è ovvia, ma necessaria. L’unico cuneo che potrebbe rompere questa logica di ghiaccio sarebbe quello di avere risorse sufficienti (facile a dirsi, ma impossibile a realizzarsi, almeno sino a quando la sostenibilità economica sarà sempre il metro di giudizio delle cose da fare).
Molto (troppo?) spesso si è fatto ricorso alla similitudine tra la sconvolgente situazione, quasi onirica, che stiamo vivendo e una guerra. Giornate scandite da inesorabili bollettini, leggi speciali che a qualcuno ricordano i racconti del coprifuoco sentiti o visti nei film in bianco e nero, la necessità di rimanere in casa (unica certezza preventiva, in assenza di protezioni vaccinali) che ci costringe in un confino inaspettato, nascosti nelle ore sospese tra il noioso abbandonarsi ad insolite attività e la prospettiva insolita della salute come dovere civico.
Quante volte in questi giorni lacerati abbiamo sentito la retorica inflazione di parole come “prima linea”, armi, eroi (riferito a sanitari che saranno nuovamente oggetto di denunce); sentiamo parlare di combattimenti, di nemico, riservisti, mercato nero di DPI, ma la differenza abissale tra questo dramma e la guerra è che mentre in quest’ultima si mettono in atto tutti mezzi di morte, la nostra professione invece è uno straordinario e quotidiano inno alla vita e alla solidarietà.
Ma pensando al futuro, quello prospettato dai valori dei nostri vecchi, quello diventato un sacro impegno dalle ceneri dei nostri Penati (il dolore senza fine di centinaia di Colleghi che ci hanno lasciato testimoniando la nostra professione), non possiamo pensare ad un futuro qualsiasi, non da sopravvissuti ma una rinnovata civiltà che sappia riconoscerci protagonisti, portando conoscenze e valori, capacità organizzative e lungimiranti prospettive, ma soprattutto riscoprire la pìetas di Enea, qualità esistenziale della nostra cultura occidentale, nella dimensione sociale della cura riservata a tutti, visione solidaristica e inclusiva che non può inciampare in divisioni regionali o disuguaglianze biologiche, sociali o esistenziali.

Presidente OMCeO Lecce