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NECESSARIO LO SVECCHIAMENTO DELLA NOSTRA MODALITA’ FORMATIVA

 

Personalmente ritengo che, il principale punto di forza del sistema formativo universitario italiano, sia anche il suo principale punto di debolezza. Indubbiamente, infatti, l’impostazione universitaria è, attualmente, molto “scolastica”. Se questo da un lato rende i nostri giovani preparatissimi in teoria, parallelamente li rende più poveri, rispetto ai coetanei europei e soprattutto americani, nell’acquisizione di skills pratiche che sono altrettanto importanti, rispetto alla teoria, nel mondo del lavoro. A questo certamente a mio avviso contribuisce anche la grande differenza d’età tra la popolazione studentesca e i professori universitari: questi ultimi hanno un’età media di 52 anni, risultando l’Italia il Paese con l’età media più alta d’Europa dei professori universitari.

La necessità di uniformarsi agli standard europei e il continuo scambio culturale con altri Paesi rende necessario uno “svecchiamento” della nostra modalità formativa, senza però perderne i cardini fondamentali rappresentati dall’eccellente formazione, implementando la parte pratica.

FONDAMENTALE IL LAVORO DI CONCERTO DI MEDICI, TECNICI, RICERCATORI

La possibilità di avere Facoltà con competenze miste è una grande ricchezza poiché permette di vivacizzare lo scambio culturale e di analizzare i problemi da diversi punti di vista non solo personali ma anche e soprattutto scientifici. E’ abbastanza chiaro, ormai, che non è più possibile prescindere da una serie di competenze. La pandemia in corso ci ha dimostrato come sia fondamentale il lavoro in concerto di medici, tecnici, epidemiologi, virologi, ricercatori e tante altre figure per perseguire un comune obiettivo ognuno facendo la sua parte. Per questo le facoltà in ambito medico devono necessariamente avvalersi della collaborazione con il mondo delle imprese e con il sistema sanitario nazionale.

Una facoltà con orientamento bio-ingegneristico quale quella prevista nel Salento certamente può rispondere a numerosi bisogni intersecando le competenze mediche con quelle ingegneristiche: penso per esempio allo sviluppo di device meno invasivi, alla possibilità d’identificare farmaci target, all’identificazione di nuove modalità di somministrazione degli stessi, alla possibilità d’identificare meccanismi di superamento di barriere naturali che impediscono la penetrazione dei farmaci (per esempio la barriera emato-encefalica).

Questi sono solo alcuni esempi derivanti dalle difficoltà incontrate quotidianamente nella mia pratica clinica. Ritengo quindi che una facoltà con questo orientamento possa solo arricchire il nostro sistema formativo valorizzando anche studenti che possiedano skills in entrambi i settori. Se ne ritrovano sia nelle facoltà di medicina che nelle facoltà di ingegneria a indirizzo biomedico. Ritengo quindi che una facoltà con queste caratteristiche possa far esprimere al meglio una certa fetta di studenti e quindi di potenziali ricercatori o comunque persone da inserire nel mondo del lavoro che, attualmente, dovendosi dividere in diverse facoltà, non sono messi in condizione di sfruttare appieno le proprie capacità. Personalmente sono docente di un dottorato di ricerca innovativo che cerca di conciliare il mondo della medicina con il mondo dell’ingegneria. Formare fin dai banchi universitari persone con queste competenze, senza che arrivino al confronto dopo averne già strutturate, è fondamentale per il progresso.

Sostenere che la Ricerca in Italia sia il nostro tallone d’ Achille è, a mio parere, una affermazione poco generosa nei confronti delle professionalità italiane. Certamente fare ricerca implica sacrificio, spazio, tempo e denaro. I progetti di ricerca validi trovano sempre opportunità di finanziamento. Sono italiane molte e pionieristiche scoperte in diversi ambiti, non solo della medicina. Molte istituzioni hanno avviato progetti di rientro dei ricercatori all’estero e molti bandi di ricerca, fra tutti cito i bandi dell’AIRC, prevedono delle applications dedicate a ricercatori che vivono all’estero.

C’è anche da dire che spesso i ricercatori che vivono all’estero, auto-sostengono le proprie attività grazie a grant che certamente sono competitivi e difficili da vincere. Ritengo che sia necessaria una politica di rientro dei cervelli in fuga ma bisogna considerare che non tutti i “cervelli” italiani all’estero si ritengono “in fuga”. Personalmente conosco diversi italiani che lavorano all’estero, alcuni dei quali certamente cercano l’occasione per rientrare in Italia, altri preferiscono implementare il curriculum formativo ancora per qualche anno all’estero e, infine, altri ancora, hanno trovato la loro collocazione e non hanno la minima intenzione di rientrare.

Ecco, queste ultime due tipologie di pensiero non mi permettono, personalmente, di inquadrare i colleghi come “cervelli in fuga”. Personalmente ho trovato numerose opportunità in Italia e, senza voler minimamente essere ingenerosa con chi queste opportunità non le ha trovate, sarebbe importante valutare i reali motivi che spingono ad andare all’estero e a rimanerci.

VALORIZZIAMO I GIOVANI, SALVAGUARDIAMO IL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE

Riguardo alla preoccupazione che l’indirizzo bio-ingegneristico possa penalizzare la formazione del medico in tema di relazione, comunicazione, uso del linguaggio nella terapia, vi è da dire che purtroppo i temi di relazione, comunicazione, uso del linguaggio nella terapia nella facoltà di medicina, sono attualmente sotto stimati. Nessuno insegna ai giovani medici come comunicare. Questi aspetti sono in parte insiti in ognuno di noi e nell’empatia con la persona malata e con la sua famiglia, e, in parte, sono delle competenze che si acquisiscono “rubando” ai propri maestri, partecipando alle comunicazioni, utilizzando tempo, riflettendo sugli eventuali errori comunicativi.

È questo un aspetto molto dibattuto e che bisognerebbe in realtà introdurre nei corsi di laurea in medicina.  Ho fortemente voluto nella mia esperienza lavorativa la costruzione di gruppi multidisciplinari. I gruppi interdisciplinari che comprendono anche Colleghi che lavorano in altre istituzioni italiane ed estere sono certamente difficili da gestire. Conciliare le idee di tutti e “riassumerle” in un’indicazione e/o in una pratica, è spesso complicato. La valutazione di un problema sotto diversi aspetti, oltre che formativi anche culturali in senso lato, è enormemente arricchente.

La cooperazione con istituzioni internazionali ci consente anche, almeno nella mia esperienza, di sfatare i falsi miti di migliore qualità, intesa in senso generale, all’estero rispetto che in Italia. Ritrovo nei miei colleghi le stesse problematiche che riscontro io nella pratica quotidiana. Certamente se avessimo delle strutture che tenessero conto del benessere anche di chi ci lavora, come per esempio accade nei Paesi del Nord Europa, saremmo estremamente più produttivi. Mi aspetto che una facoltà di così ampio respiro, possa tener conto anche di queste problematiche.

Molte cose potrebbero migliorare. Potrei per esempio suggerire al Ministro dell’Istruzione di valorizzare i giovani, premiandoli con la carriera accademica prima dei 50 anni, quando cioè hanno maggior freschezza e minor disillusione per, a loro volta, formare schiere di giovani motivati in tutti gli ambiti. Al Ministro della Salute, invece, suggerirei, alla luce di quanto verificatosi in pandemia, di proteggere il sistema sanitario nazionale. I medici hanno lottato con tutte le loro forze in questi mesi per garantire il meglio delle cure per tutti.

Si è tanto detto e scritto sulle conseguenze sulla pandemia dei tagli al sistema sanitario nazionale operate negli anni scorsi come fattore determinante la saturazione delle terapie intensive, il fallimento della medicina territoriale, le strutture sovraccariche tanto da limitare le valutazioni di pazienti con altre patologie. Quest’ultimo è un prezzo che continueremo a pagare negli anni: basti pensare a tutti gli screening oncologici che non sono stati effettuati e quindi a tutte le persone che arriveranno a una diagnosi di cancro quando la situazione è già avanzata, saltando la tappa della diagnosi precoce, fondamentale nel condizionare l’outcome del paziente oncologico adulto.

Ebbene, traiamo insegnamento dalla pandemia da SARS-CoV-2 per ricollocare le priorità nel nostro Paese. Noi medici italiani e gli operatori sanitari tutti siamo bravi: è tempo di metterci in condizione di lavorare bene, perché a noi è affidato il bene più prezioso che ognuno di noi ha, la vita.

 

Angela Mastronuzzi è nata a Taranto nel 1977. Si è laureata in Medicina e Chirurgia nel 2002, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore (sede di Roma), dove ha proseguito la sua formazione conseguendo la Specializzazione in Pediatria – con indirizzo onco-ematologico – nel 2007. Ha ottenuto il Dottorato di Ricerca in Medicina molecolare presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, nel 2015.
Ha iniziato la carriera assistenziale come Dirigente Medico nel 2007 presso il Policlinico “San Matteo” di Pavia, per poi trasferirsi nel 2010 a Roma, presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù; dal 2017 è Responsabile della Struttura Semplice Dipartimentale di Neuro-Oncologia, all’interno del Dipartimento di Onco-Ematologia e Terapia Cellulare e Genica, diretto dal prof. Franco Locatelli. Nel 2019 ha ricevuto il Premio internazionale “Sebezia-Ter” e il Premio Atena Ricerca per gli studi condotti sui tumori cerebrali infantili.

 

Dott.ssa Angela Mastronuzzi - Roma
Dott.ssa Angela Mastronuzzi – Roma
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