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Numero 1-2020

Scritto dal Dr. Paolo Tundo Direttore S.C. Malattie Infettive. Ospedale di Galatina

L’USO DI DROGHE AUMENTA SENSIBILMENTE LA POSSIBILITA’ DI CONTRARRE INFEZIONI

I soggetti tossicodipendenti hanno indubbiamente una più elevata morbilità e mortalità rispetto alla popolazione generale della stessa età e dello stesso sesso. Ciò è ovviamente riconducibile in primo luogo all’azione diretta delle droghe ed ai comportamenti che ne caratterizzano l’assunzione, ma in gran parte è anche conseguente a problematiche infettivologiche, spesso polimicrobiche (tabella 1).

Nel nostro Paese, come in tutto il mondo occidentale, patologie infettive come l’HIV, l’HCV, l’HBV o la sifilide hanno un rilevante impatto sulla salute pubblica, sia in termini di qualità di vita che in termini economici. Tali condizioni sono strettamente correlate a “comportamenti individuali a rischio”, in primo luogo legati alla sfera sessuale, che coinvolgono quindi tutta la popolazione generale, ma certamente i fenomeni di dipendenza aumentano grandemente la probabilità di contrarre una di queste infezioni.

Indubbiamente, la trasmissione di questi ed altri agenti infettivi è favorita dalla modalità di assunzione delle droghe, in particolare dalla via endovenosa e dalla condivisione di aghi o altri strumenti non sterili. Tuttavia, nel corso del tempo ed in particolare dopo l’epidemia da HIV registrata a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso, le condotte dei tossicodipendenti si sono nettamente modificate, con una drastica riduzione ad esempio nello scambio di siringhe e, in assoluto, nell’utilizzo di sostanze per via iniettiva. Ciò ha però diminuito solo in parte il rischio infettivo, perché spesso coesistono altre condizioni che rendono chi è dedito a droghe meno incline a perseguire comportamenti corretti: patologie psichiatriche, carcerazione, disagio sociale, disoccupazione, malnutrizione.

Ma più in generale questi soggetti sono, di per sé, meno attenti alla salvaguardia della propria salute. Basti pensare al sempre più frequente utilizzo oggi di farmaci psicoattivi a scopo “ricreazionale”, sostanze queste che determinano un aumento della disinibizione e del desiderio sessuale e che proprio per questo motivo vengono utilizzate soprattutto fra i giovanissimi, spesso in associazione ad alcol. Dunque, anche questa modalità, ben lontana da quella del classico tossicodipendente da strada, accresce il rischio infettivo, in primo luogo per la possibilità di contrarre malattie sessualmente trasmissibili. Inoltre, non va dimenticato che le stesse sostanze stupefacenti possono determinare un effetto immunosoppressivo, come è ampiamente dimostrato per i derivati dell’oppio e per molti cannabinoidi sintetici, determinando così una maggiore suscettibilità alle infezioni.

Date queste premesse, è facile comprendere come le manifestazioni infettive del tossicodipendente siano così varie e numerose e possano coinvolgere qualsiasi organo o apparato (tabella 2), senza alcuna peculiarità specifica da un punto di vista clinico, diagnostico o terapeutico. Sono altri invece i fattori che contraddistinguono ed unificano la maggior parte di queste esperienze, a partire dal frequente ritardo nella diagnosi, a cui spesso si perviene quando l’evoluzione clinica è diventata ormai grave.

 

 

Ciò si verifica talvolta perché il medico dimostra una scarsa cultura sulle sostanze maggiormente in uso, sulle loro modalità di preparazione o somministrazione, sulle conseguenze cliniche che ne possono derivare. Ma, più frequentemente, succede invece perché il tossicodipendente trascura i sintomi d’allarme o ricorre inizialmente a degli auto-medicamenti, avendo remore nel rivolgersi al curante, nel tentativo di tenere nascosto il fattore esotossico causale. Del resto, è innegabile una sorta di stigmatizzazione nei confronti dei soggetti dediti a sostanze, anche da parte degli stessi operatori sanitari, atteggiamento questo che si traduce poi in una gestione clinica spesso limitata alle manifestazioni acute, evitando cioè di stabilire con il paziente un rapporto fiduciario più profondo, che permetta di avviare nel contempo anche un programma di disassuefazione. Ma, ancora peggio, spesso il clinico non si attiene a procedure e linee guida codificate, nella falsa convinzione che il tossicomane sia di per sé meno aderente e poco incline ad accettare protocolli di diagnosi e cura più complessi; diverse evidenze scientifiche provano invece come, così facendo, si riduca ampiamente l’efficacia clinica e ci si esponga ad un maggior numero di fallimenti e ricadute (2).

UNA ORGANIZZAZIONE INTEGRATA MULTIDISCIPLINARE

Se quindi la relazione fra droghe e malattie infettive è indiscutibilmente conseguente alle abitudini del soggetto tossicodipendente, è altrettanto vero che tale connubio persiste ed è difficile da rompere anche a causa di comportamenti medici dettati da ignoranza, pregiudizio o peggio ancora rifiuto ad impegnarsi in una relazione di aiuto certamente impegnativa. Ci si dimentica però di considerare che, in questo specifico ambito, le ripercussioni non sono a carico esclusivamente del singolo consumatore, ma coinvolgono l’intero contesto sociale e che quindi un efficace progetto di prevenzione e di cura persegue un obiettivo di salute non solo individuale ma anche pubblico. A esempio, dopo un solo anno di uso di droghe per via endovenosa, già due terzi dei soggetti tossicodipendenti presentano un’infezione cronica attiva da HCV ed ognuno di questi è poi in grado, a sua volta, di infettare almeno altri 20 consumatori entro i primi 3 anni dall’inizio del contagio (3).

Ovviamente, nella sua circolazione, è altamente probabile che il virus coinvolga anche soggetti non tossicomani, ma oggi per fortuna è possibile rompere questa catena infettiva con estrema facilità, essendo disponibile un trattamento specifico anti HCV per via orale, di brevissima durata (8-12 settimane), di altissima efficacia (99%) e sostanzialmente privo di effetti collaterali. Se si vuole però cercare di eradicare il virus dell’epatite C nel nostro Paese, diventa essenziale andare a ricercarlo nelle popolazioni a rischio (tossicodipendenti in primis) e mettere poi in atto un adeguato trattamento di tutti i soggetti infetti.

Da queste considerazioni deriva che tutti i servizi territoriali per il contrasto alle dipendenze (SERD, servizi di alcologia, comunità terapeutiche) devono necessariamente prevedere, oltre allo specifico inquadramento tossicologico, una valutazione globale del soggetto, con particolare attenzione al profilo infettivologico, meglio ancora se in collaborazione con i servizi specialistici del territorio. Allo scopo di far emergere infezioni silenti e pervenire ad una precoce diagnosi e terapia delle stesse, diventa allora fondamentale l’esecuzione routinaria di indagini sierologiche per HIV, per i virus epatotropi maggiori (HCV e HBV) e per i principali agenti trasmissibili per via sessuale, oltre ad un’intradermoreazione secondo Mantoux. Ma, al di là dello screening, è essenziale anche costruire programmi di interventi individuali centrati sulla persona e mirare quindi ad un tempestivo inquadramento diagnostico e successivo trattamento di eventuali problematiche infettivologiche di qualsiasi natura. Nello stesso tempo è necessaria una continua azione di informazione, sensibilizzazione e prevenzione, cercando ad esempio di promuovere condotte di riduzione del danno o andando a valutare ed eventualmente completare il calendario delle vaccinazioni obbligatorie.

Purtroppo però i dati della letteratura ed anche la nostra esperienza personale mostrano come l’esecuzione di specifici test all’interno dei SERD sia limitata ad un bassissimo numero di utenti. La “Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze” (1) riporta infatti in Italia dei dati estremamente allarmanti: nonostante la ben nota ampia diffusione di alcuni agenti virali in questo specifico ambito, di tutti i soggetti in trattamento presso i SERD, nel 2018 solo il 29.5% era stato testato per HIV, il 21.3% per HBV ed appena il 20.1% per HCV. È invece altrettanto documentato come la presa in carico di un soggetto tossicodipendente per una problematica infettivologica sia in grado di determinare una relazione più “intensa” con il terapeuta e consenta quindi di intervenire in maniera più efficace anche sulla tematica tossicologica di base. Perché ciò si realizzi è però fondamentale un’organizzazione integrata multidisciplinare.

Ad esempio, l’esperienza da noi condotta all’interno del SERD di Galatina ha permesso l’individuazione prima e la cura poi di quasi tutti i soggetti affetti da epatite cronica C, eradicando così l’infezione nella quasi totalità dei casi e riducendo nettamente la circolazione del virus. Ma, nel contempo, abbiamo avuto modo di verificare come tali pazienti abbiano spesso manifestato una maggiore volontà ad abbandonare le proprie abitudini voluttuarie, perché si sono sentiti “considerati” come persone meritevoli di attenzione, ma anche perché è stata possibile una ripetuta esortazione a prestare maggiore cura alla propria salute.

La valenza positiva di questa esperienza risiede nell’azione sinergica di diversi professionisti, venendo talora coinvolto anche il gastroenterologo o lo psichiatra, ognuno dei quali si limita ad operare secondo il proprio ambito di competenza; in questo modo la gestione degli atteggiamenti e dei comportamenti del soggetto tossicodipendente, che spesso mettono in difficoltà il rapporto di cura, viene demandata al medico tossicologo e l’intervento infettivologico risulta così estremamente facilitato. Alla luce di un risultato così favorevole, è naturale allora come l’obiettivo da perseguire sia ora quello di ampliare l’esperienza ad altri servizi per le dipendenze della provincia, sotto l’egida della ASL. Solo implementando sul territorio delle reti assistenziali che coinvolgano differenti specialisti sarà davvero possibile provare a rompere quel così temibile connubio tossicodipendenza – malattie infettive.

 

*La specificazione eziologica è estremamente riduttiva, perché nella maggior parte dei casi si tratta di infezioni polimicrobiche

1. Giovanni Serpelloni e Mario Cruciani “Uso di sostanze stupefacenti e patologie infettive correlate” 2012. Dipartimento per le Politiche Antidroga
2. Mertz D. et al. “Appropriateness of antibiotic treatment in intravenous drug users, a retrospective analysis” BMC Infectious Diseases 2008, 8: 42
3. Magiorkinis et al. “Integrating phylodynamics and epidemiology to estimate transmission diversity in viral epidemics”. 2013. PloS Comput Biol, 9 (1): e1002876
4. Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze anno 2019 (dati del 2018). Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le Politiche Antidroga
5. “Nuove linee di indirizzo per lo screening e la diagnosi delle principali patologie infettive correlate all’uso di sostanze nei Servizi per le Dipendenze” 2017. Dipartimento per le Politiche Antidroga

 

Dr. Paolo Tundo Direttore S.C. Malattie Infettive. Ospedale di Galatina
Dr. Paolo Tundo Direttore S.C. Malattie Infettive. Ospedale di Galatina

 

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