Numero 3-2021
Scritto dal dott. Alessandro Telesca e dal dott. Alfredo Ricchiuto, Specializzandi in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare UCSC – Policlinico Gemelli. Roma
UNA BATTAGLIA CHE RIGUARDA IL 10 PER CENTO DEGLI ULTRAOTTANTENNI
Introduzione
“Dottore, è da qualche mese che mi stanco quando cammino, ho affanno e qualche volta anche dolore al petto…”. Di fronte ad un paziente che si presenta con dispnea e/o angina da sforzo, la cardiopatia ischemica non è l’unica malattia a cui pensare, ma soprattutto in pazienti anziani o con particolari fattori di rischio andrebbe allargato il sospetto diagnostico includendo anche le valvulopatie, in particolare la più frequente della nostra epoca, ovvero la stenosi aortica (SA).
Per stenosi aortica si definisce un ostacolo allo svuotamento sistolico del ventricolo sinistro (VS) dovuto ad un restringimento della valvola aortica conseguente a processi infiammatori o degenerativi cronici delle cuspidi valvolari che ne determinano una ridotta apertura.
Essa è la patologia valvolare più comune a livello mondiale, con una prevalenza del 3% sopra i 65 anni e quasi il 10% sopra gli 80 anni, in costante incremento in virtù dell’allungamento dell’aspettativa di vita della popolazione. Ancora oggi essa presenta un’elevata morbidità e mortalità. Il trattamento definitivo di tale valvulopatia è una battaglia iniziata negli anni ‘50 del Novecento dai cardiochirurghi, alla quale dall’ultimo decennio anche i cardiologi stanno dando un grande contributo con l’introduzione di nuove tecniche percutanee.
Eziologia, fisiopatologia e diagnosi
Dal punto di vista eziologico, la tipologia di SA più frequente sopra i 65 anni è la malattia calcifica in cui i processi degenerativi legati all’età, o ad altri fattori di rischio quali insufficienza renale o trattamento radioterapico, portano ad una sclerocalcificazione delle cuspidi con ridotta apertura sistolica. Meno frequente in Europa, invece è la forma reumatica, spesso associata a steno-insufficienza mitralica. Sotto i 65 anni, circa i due terzi dei casi di SA sono legati ad un’alterazione congenita della morfologia valvolare, principalmente una valvola bicuspide, spesso associata ad una dilatazione della radice aortica e dell’aorta ascendente.
La graduale riduzione dell’ostio valvolare implica che affinché venga mantenuto un flusso ematico costante, il VS debba sviluppare un gradiente pressorio transvalvolare tanto maggiore quanto maggiore è il grado di ostruzione all’efflusso. Il sovraccarico pressorio nel VS che ne deriva è uno stimolo allo sviluppo come meccanismo di compenso di un’ipertrofia concentrica con aumento degli spessori, in assenza di dilatazione endocavitaria, almeno in una prima fase. Tale meccanismo di compenso porta però degli effetti sfavorevoli quali la disfunzione diastolica, il che rende fondamentale il contributo atriale al riempimento (assente in caso di fibrillazione atriale, con comparsa di sintomi), ed una maggiore richiesta di O2 miocardico dovuto all’aumento della massa muscolare, solo parzialmente soddisfatta in quanto l’aumento della pressione endocavitaria ostacola la perfusione coronarica e facilita la comparsa di ischemia anche in assenza di malattia aterosclerotica coronarica.
La triade sintomatologica tipica della SA è rappresentata da dispnea, angina e sincope, che si presentano quando l’entità del restringimento è critica e correlano con una prognosi infausta. In particolare questi sintomi emergono in fase iniziale soprattutto in occasione di sforzi fisici, in quanto l’aumentato numero di cicli cardiaci legato all’aumento della frequenza cardiaca durante l’esercizio comporta la compromissione dei meccanismi di compenso sopracitati. La comparsa di sintomi è indice di gravità emodinamica della patologia, la quale se non trattata può evolvere entro pochi anni ad insufficienza ventricolare e morte, anche improvvisa.
Di fronte ad un paziente come quello presentato ad inizio articolo, una corretta auscultazione cardiaca permette di rilevare il “soffio sistolico a diamante” la cui intensità aumenta fino a raggiungere uno zenit al termine dell’eiezione per poi decrescere udibile a livello del focolaio aortico.
Il gold standard per la diagnosi di SA, però, è rappresentato dall’ ecocardiogramma color Doppler transtoracico che consente di valutare la morfologia, la sede delle calcificazioni, i segni di ipertrofia concentrica e fornisce una stima affidabile dell’area valvolare e della gravità emodinamica della stenosi.
La stima della gravità della SA richiede la misurazione di tre parametri: la velocità massima del jet aortico (V. max), il gradiente pressorio transvalvolare medio (DPm) e l’area valvolare funzionale (AVA-D). In base ai valori di questi parametri è possibile classificare la SA in diversi stadi:
Stadio A: sclerosi o bicuspidia a rischio di stenosi (V.max <2,5 m/s).
Stadio B: graduale calcificazione o fusione reumatica dei lembi che determinano SA lieve (V. max <3 m/s o DP ≤20 mmHg e AVA-D >1,5 cmq) o moderata (V. max <4 m/s o DP 20-39 mmHg e AVA-D 1-1,5 cmq)
In presenza di V. max ≥4 m/s o DPm ≥40 mmHg e AVA-D ≤1 cmq si parla di SA severa, la quale è classificata in base all’assenza (stadio C) o alla presenza di sintomi (stadio D) a riposo o da sforzo.
Nell’ambito dello stadio D, inoltre, è possibile avere in circa il 30% dei casi una discordanza tra le misure ottenute ovvero un valore di AVA-D <1 cmq con DPm <40 mmHg. Si parla in tal caso di SA “a basso gradiente” nella quale rientrano, a seconda del flusso e della funzione contrattile ventricolare (FE), tre diversi pattern:
1. Basso flusso/basso gradiente (stadio D2, 10%): il basso gradiente è dovuto ad un ridotto flusso determinato da una disfunzione contrattile (FE<50%). In questo caso per escludere che si tratti di una forma pseudosevera si ricorre ad altri test tra cui eco dobutamina a bassa dose.
2. Basso flusso/basso gradiente “paradossa” (stadio D3, 15%): il basso gradiente è giustificato da un basso flusso in presenza però, paradossalmente, di una preservata contrattilità (FE≥50%). Questa forma è tipica di donne anziane con ventricoli piccoli ed ipertrofici, oppure nei pazienti con amiloidosi. In tal caso la conferma della severità si ottiene eseguendo Tac Torace e calcolando il Calcium Score.
3. Normale flusso/basso gradiente (20%): è presente normale flusso con FE ≥50% nonostante una ridotta area valvolare. Si considera analoga ad una SA moderata, meritevole tuttavia di intervento in presenza di sintomi.
Dal problema alla soluzione
L’unico trattamento efficace per la SA severa è la sostituzione valvolare aortica (SVA). Accanto al tradizionale intervento cardiochirurgico di sostituzione valvolare con posizionamento di una valvola protesica (surgical aortic valve replacement, SAVR), sia essa biologica o meccanica, da un decennio a questa parte il paradigma del trattamento interventistico è stato rivoluzionato dall’introduzione di nuove tecniche percutanee che consentono l’impianto diretto di una bioprotesi tramite cateterismo arterioso (transcathether aortic valve implantation, TAVI).
Nonostante possano risultare di aiuto nel migliorare i sintomi nel breve periodo, la terapia medica e la valvuloplastica con pallone non sono in grado, da sole, di modificare la prognosi e la storia naturale della SA severa. Il ruolo di un consenso multidisciplinare sulle valvulopatie è sempre più enfatizzato come parte integrante per la gestione dei pazienti con SA severa e si incoraggia vivamente l’uso di punteggi in modo tale da poter classificare facilmente i pazienti come a basso, medio o alto rischio chirurgico.
Sostituzione valvolare aortica: indicazioni, tempistiche e scelta del tipo di protesi
I pazienti con SA asintomatica (stadio C) hanno una bassa incidenza di morte improvvisa (<1% all’anno) e pertanto necessitano solo di un periodico monitoraggio per la progressione di malattia o lo sviluppo di sintomi. I pazienti con una FE ridotta risultano tuttavia beneficiare della SVA, pure raccomandata nei pazienti che devono andare incontro ad altri interventi cardiochirurgici e nei pazienti con SA altamente severa (V. max>5 m/s o DP >60 mmHg), in quanto in questi la progressione di malattia è rapida e l’esordio dei sintomi a breve termine è inevitabile. La SVA è invece raccomandata in tutti i pazienti con SA severa sintomatica (stadio D) e non dovrebbe essere differita anche se i sintomi migliorano grazie alla farmacoterapia.
La decisione sulle tempistiche ottimali di intervento è una valutazione complessa: da un lato la gestione conservativa di una SA severa asintomatica comporta un certo rischio di eventi cardiovascolari avversi, compresa la morte cardiaca improvvisa così come un progressivo rimodellamento miocardico e fibrosi del VS; dall’altro, nonostante gli indubbi passi in avanti nella sicurezza ed efficacia di SAVR e TAVI, queste procedure non sono scevre da rischi. Da considerare, ad esempio, come tutte le bioprotesi abbiano una longevità finita, con un “conto alla rovescia” innescato al momento dell’impianto; o come d’altro canto le valvole meccaniche richiedano una anticoagulazione a vita, con conseguente aumento del rischio di sanguinamenti. Tutte le valvole protesiche, poi, portano con loro un rischio intrinseco di endocardite e di eventi tromboembolici. Il timing ideale per l’intervento dovrebbe essere definito come il momento nel corso della patologia in cui i benefici della sostituzione valvolare superano i rischi dovuti alla malattia della valvola nativa.
Dopo aver stabilito di intervenire sulla SA, la domanda cruciale diventa: quale tipo di valvola è la migliore per il nostro paziente? È una questione complessa in cui età, comorbidità, anatomia valvolare e preferenze del paziente rappresentano i punti chiave. La principale dicotomia è se impiantare una valvola protesica meccanica o biologica. L’età è un fattore determinante sia per le caratteristiche intrinseche di resistenza delle protesi, ma anche perché il tasso di deterioramento strutturale della valvola è tanto più alto tanto più si è giovani al momento dell’impianto.
Nei pazienti in cui si opta per una SVA mediante bioprotesi, lo step successivo è la scelta tra SAVR e TAVI. Nei pazienti a proibitivo o alto rischio per SAVR, la valutazione si focalizza sulla TAVI o sulle cure palliative. Quando il rischio chirurgico non è alto-proibitivo, se entrambe SAVR e TAVI sono una valida alternativa, la prima considerazione ricade sulla limitatezza dei dati disponibili riguardo la durabilità della TAVI: ancora oggi dati robusti si estendono al massimo fino a 5 anni. Il deterioramento valvolare nella SAVR – una procedura d’altro canto standardizzata da più di 50 anni e con solidi dati disponibili trasversalmente per tutte le fasce d’età – tipicamente interviene invece dopo 10 anni.
Il punto di vista del cardiologo: focus on TAVI
Il trattamento percutaneo della SA severa sintomatica mediante TAVI rimane uno dei più grandi risultati ottenuti dalla cardiologia interventistica negli ultimi anni. L’aumentata esperienza degli operatori ed il continuo miglioramento della tecnologia e dei dispositivi ha portato ad una tendenza globale verso l’estensione dell’indicazione alla TAVI.
Si tratta di una procedura sicura ed efficace per il trattamento della SA severa sintomatica in tutti gli adulti, indipendentemente dal rischio chirurgico stimato. Secondo quanto emerge da una metanalisi di RCTs, il tasso di mortalità per la TAVI transfemorale è più basso rispetto a quello della SAVR ed è inoltre associata ad un rischio minore di ictus, sanguinamenti maggiori ed insorgenza di fibrillazione atriale così come garantisce una più breve degenza ospedaliera media, minor dolore ed un più rapido ritorno alle attività abituali. D’altra parte, la TAVI comporta un più alto rischio di complicanze vascolari, insufficienza valvolare paraprotesica, impianto di pacemaker permanente e reintervento sulla valvola; nonostante ciò la gran parte dei pazienti è portata a considerare il bilancio tra rischi e benefici come vantaggioso. In caso di significativo deterioramento della protesi valvolare, attualmente è sempre più frequente il ricorso ad una seconda procedura di TAVI all’interno della prima protesi (chiamata valve-in-valve TAVI).
I trial PARTNER e PARTNER 2 sono stati in grado di dimostrare rispettivamente la superiorità della TAVI rispetto alla terapia medica nei pazienti non candidabili a chirurgia e la non inferiorità della TAVI rispetto alla SAVR nei pazienti a rischio intermedio. Gli ultimi dati del PARTNER 3 lasciano speculare riguardo la possibilità di scegliere la TAVI persino nei pazienti a basso rischio chirurgico, mostrando come ad un anno si abbiano risultati migliori in termini di sopravvivenza e complicanze maggiori. Dati rilevanti ci vengono forniti anche dal trial SURTAVI, il secondo più grande trial prospettico randomizzato in grado di dimostrare che la TAVI è comparabile alla chirurgia nei pazienti a rischio chirurgico intermedio.
In Italia, dal 2007 al 2017, il numero di procedure di TAVI è cresciuto esponenzialmente fino a raggiungere le 5528 procedure nel 2017. Tuttavia, con 91 procedure per milione di abitanti ci posizioniamo ancora agli ultimi posti rispetto agli altri sistemi sanitari Europei in termini di volume di TAVI impiantate/anno e, come spesso accade anche in altri frangenti, è chiara una notevole disparità sul territorio nazionale stratificata per Regioni nella presenza di centri con laboratori di emodinamica eroganti più di 30 procedure/anno, riflesso delle profonde disuguaglianze socio-economiche e organizzative regionali.
Conclusioni e prospettive
I dati sopra menzionati lasciano riflettere su come si sia ormai incrinato il dogma che la SAVR sia il gold standard per i pazienti con SA severa: in determinati sottogruppi di pazienti, come quelli a rischio intermedio sottoposti a TAVI transfemorale, la TAVI si è dimostrata persino superiore. Le linee guida delle maggiori società scientifiche Americane congiunte pubblicate nel 2020 assegnano alla TAVI un livello di evidenza IIa per i pazienti a rischio intermedio. Rimane in ogni caso la problematica della durabilità delle bioprotesi impiantabili transcatetere.
Da considerare, altresì, altri aspetti parzialmente irrisolti: il rischio di impianto di pace-maker, la presenza di una bicuspidia valvolare e l’eventuale necessità TAVI valve-in-valve o di angioplastica coronarica dopo la TAVI. Ci sono pure delle controindicazioni relative alla TAVI che andrebbero valutate nei pazienti a rischio intermedio: un’aspettativa di vita minore di un anno, la presenza di altre valvulopatie severe che possono essere trattate solo mediante chirurgia, un’anatomia valvolare inadeguata, il riscontro di trombo nel ventricolo sinistro o di endocardite attiva… Dobbiamo poi accettare che non è ancora giunto il momento per indicare la TAVI nel basso rischio: i dati pubblicati sul monitoraggio a 2 anni dei pazienti del PARTNER 3 non sono così lusinghieri come quelli del primo anno.
Concludendo, sono necessari ulteriori studi per implementare l’indicazione a TAVI nei pazienti a rischio intermedio e per poterla estendere fino ai pazienti a basso rischio chirurgico, ma l’avere sempre più a disposizione questa tecnica nel nostro armamentario rende la SA severa una patologia meno spaventosa rispetto al passato.
Bibliografia
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