REPORT DI UN CASO CLINICO COMPLESSO IN CHIRURGIA IMPLANTARE
INTRODUZIONE
La rigenerazione ossea guidata (GBR) è diventata in odontoiatria, nel corso degli ultimi anni, una procedura terapeutica essenziale nel trattamento dei difetti ossei a scopo implantare. La GBR permette la formazione di nuovo tessuto osseo in sedi in cui sono presenti difetti verticali (deficit di altezza) e/o difetti orizzontali (deficit di spessore) della cresta ossea residua che renderebbero impossibile l’inserimento di impianti dentali.
Quindi, in presenza di una cresta ossea sottile e/o bassa, la GBR ci permette di ricostruire il tessuto osseo mancante prima del posizionamento implantare, o contestualmente allo stesso, e quindi di poter riabilitare il cavo orale dei nostri pazienti con protesi fisse supportate da impianti dentali.
CASO CLINICO
Il caso clinico descritto in questo articolo intende sottolineare come, in alcuni casi assolutamente selezionati, si possa effettuare una chirurgia mini invasiva, sfruttando al meglio i mezzi che l’attuale conoscenza e tecnologia mettono a disposizione del professionista. Fermo restando che, alla base di questo diverso approccio, ci sia sempre una chiara conoscenza di quelle che sono le tecniche più predicibili dettate dalla letteratura e dagli studi clinici in anni di lavoro.
Il caso clinico che esaminiamo riguarda una giovane paziente di anni 40.
La paziente gode di buona salute e l’anamnesi è negativa per patologie pregresse o in atto sia a livello generale che a livello orale. In prima visita viene effettuato un attento esame del cavo orale oltre ad una panoramica delle arcate dentarie per valutare radiograficamente lo stato di salute orale dei denti residui e dei tessuti duri. La paziente presenta, a livello mascellare, un vecchio circolare superiore in metallo ceramica ancorato su monconi naturali. A livello mandibolare, si evidenziano diverse mancanze dentali soprattutto in sede inferiore destra.
La paziente esprime la sua volontà di voler riabilitare solo la parte inferiore, segnalando la difficoltà nella masticazione a causa della mancanza di più elementi dentali a livello mandibolare.
Dalla panoramica si nota, nelle sedi edentule inferiori, la presenza di una buona altezza della cresta ossea mentre l’esame clinico evidenzia, di contro, uno spessore particolarmente sottile della stessa.
In virtù di queste considerazioni, è stato richiesto un esame tridimensionale (CBCT o più comunemente Cone Beam) mandibolare, per valutare lo spessore osseo e, sulla base di ciò, improntare poi il successivo piano di trattamento. La cone beam della paziente ha evidenziato un gravissimo deficit orizzontale a livello della sella mandibolare di destra, con una cresta ossea estremamente sottile che presenta uno spessore ≤ a 2 mm per tutta la sua lunghezza mesio-distale, in zona 44, 45 e 46, con una compagine ossea trabecolare ≤ 1 mm.
POSSIBILITÀ TERAPEUTICHE – Vantaggi e svantaggi
In generale, le opzioni di trattamento per i difetti orizzontali della cresta ossea prevedono gli innesti ossei con diversi tipi di biomateriali (innesti a blocco autologhi, innesti omologhi, innesti eterologhi e sostituti ossei), la rigenerazione ossea guidata (GBR) da sola o in combinazione con procedure di innesto, l’espansione della cresta ossea o split crest e la distrazione osteogenetica. Rapportando le varie tecniche di rigenerazione orizzontale della cresta ossea sopra descritte a questo particolare caso clinico, le due più predicibili risultano essere l’innesto autologo a blocco e la GBR con Mesh in titanio e/o membrane, con l’ausilio di biomateriali da riempimento.
Entrambe le procedure chirurgiche di aumento orizzontale dell’osso presentano però degli svantaggi. Tra questi, è opportuno sottolineare come, in questo specifico caso in esame, entrambe le tecniche avrebbero previsto due interventi chirurgici differiti (uno per l’innesto a blocco o per la GBR e l’altro, il successivo, per l’inserimento degli impianti). L’innesto a blocco avrebbe implicato due sedi chirurgiche (la sede del prelievo dell’innesto e la sede da rigenerare ricevente l’innesto); entrambe avrebbero previsto lunghi tempi di attesa (6-8 mesi per la rigenerazione e altri 4-6 mesi per la successiva osteointegrazione degli impianti).
Per molti anni l’uso di innesti di osso autologo è stato considerato il “gold standard” per la rigenerazione ossea orizzontale, anche se negli ultimi anni l’uso di biomateriali di sostituzione ossea ha messo in discussione questa scelta o, meglio, ha spinto molti professionisti a valutare tecniche alternative meno invasive e con minor morbilità per il paziente.
Nella tecnica di innesto, un blocco di osso autologo viene normalmente prevelato dalla regione retromolare o dalla sinfisi mandibolare (siti donatori) e fissato nella sede del tessuto osseo da rigenerare (sito ricevente), opportunamente preparato, con viti da osteosintesi. Tuttavia, la tecnica di innesto osseo, oltre a prevedere due siti chirurgici e quindi maggiore morbilità per il paziente, non è scevra da complicanze quali l’esposizione dell’innesto, l’infezione e i disturbi neurosensoriali transitori o permanenti, legati alla sede di prelievo e al rischio di ledere strutture nervose.
Considerando tutti questi aspetti, la scelta di tecniche chirurgiche alternative, che non prevedano l’uso di innesti ossei autologhi e che riducano al minimo le complicanze biologiche, potrebbe offrire un vantaggio clinico significativo. Nella tecnica di GBR (Rigenerazione Ossea Guidata), biomateriali di diversa origine, soprattutto eterologhi, vengono posizionati nel sito osseo da rigenerare e “protetti” con mesh in titanio e/o membrane, fissate con viti o chiodini da osteosintesi.
Anche questa tecnica, seppur meno invasiva, presenta degli svantaggi. Le membrane riassorbibili, pur avendo il grande vantaggio di non dover rientrare chirurgicamente per rimuoverle essendo le stesse degradabili nel tempo, mostrano scarsa resistenza al collasso e quindi ridotta capacità di mantenere uno spazio o volume adeguato, indispensabile per la rigenerazione ossea. Le membrane non riassorbibili o le mesh in titanio sicuramente hanno il grande vantaggio di mantenere uno spazio adeguato per la rigenerazione dell’osso in un lungo arco di tempo (effetto barriera di lunga durata) ma, nonostante i buoni risultati clinici, si evidenziano frequenti complicanze quali l’esposizione della membrana o della mesh e l’infezione. Un altro limite clinico è la necessità di un secondo intervento chirurgico per la loro rimozione.
Infine, tra le possibilità terapeutiche, un cenno va fatto all’espansione ossea o split crest che, in questo specifico caso in esame, non trova indicazione perché, per poter effettuare un’espansione di cresta ossea predicibile, è necessario avere uno spessore della cresta ≥ 4 mm, con lo spessore dell’osso midollare pari a 2 mm e lo spessore dell’osso corticale pari ad almeno 1 mm su ciascun lato. Pertanto, nel caso clinico affrontato in questo studio, lo split crest avrebbe rappresentato un’alternativa poco predicibile e con un elevato rischio di frattura della compagine ossea, avendo la cresta ossea della paziente uno spessore di soli 2 mm e una compagine midollare ≤ 1 mm. Rischio reso ancora più elevato dal fatto che nel nostro caso si tratta di una cresta ossea sottile per quasi tutta la sua altezza, sia a livello crestale che a livello basale.
UN NUOVO APPROCCIO CHIRURGICO – I mezzi guidano la tecnica
In virtù delle considerazioni fatte in merito a quale fosse la tecnica chirurgica più predicibile nell’affrontare il caso clinico in questione, con i suoi vantaggi e svantaggi, si è deciso, in accordo con la paziente, di valutare un diverso approccio terapeutico, che fosse meno invasivo e con minor tempi di attesa.
A questo punto, la mia attenzione si è spostata dalle tecniche ai mezzi. L’odontoiatria negli ultimi anni, meglio decenni, ha fatto passi da gigante con l’introduzione di nuove tecnologie e mezzi che semplificano il lavoro e ci permettono di affrontare casi complessi in minor tempo e con maggior “comfort” per il paziente.
La prima valutazione fatta per affrontare questo caso clinico è stata la scelta del diametro degli impianti da inserire.
Se avessi scelto di inserire impianti di diametro ≥ 3.5 mm, diametro auspicabile nella riabilitazione di un settore posteriore soggetto a grandi carichi masticatori, sicuramente avrei dovuto mettere in conto che, avendo una cresta ossea residua di 2 mm, sarebbe stato impossibile non ricorrere alle tecniche chirurgiche già menzionate.
Ho quindi deciso di prendere in considerazione degli impianti “narrow”, cioè di diametro ≤ 3 mm, nello specifico di diametro 2.9, con una connessione impianto-moncone “conometrica” (senza vite di serraggio) e quindi con un moncone pieno che, a mio giudizio, avrebbe assicurato una buona resistenza meccanica e una ottima stabilità.
Pur avendo scelto un impianto di piccolo diametro, la compagine ossea in cui inserire questi impianti è pari a circa 2 mm, per cui ho dovuto prendere in considerazione una tecnica di preparazione del sito implantare che mi permettesse di non perdere osso. Anche in questo caso, la mia attenzione si è spostata sui mezzi attualmente a nostra disposizione. Infatti, la seconda valutazione fatta per affrontare la preparazione del sito implantare senza consumare osso è stata la scelta di utilizzare delle frese di preparazione del sito implantare che anziché tagliare l’osso, lo compattassero.
Nello specifico, ho utilizzato delle frese osteocondensatrici le quali, utilizzate in modalità di osteodensificazione, preparano il sito implantare preservando e compattando l’osso già presente. Queste frese risultano particolarmente utili in tutte quelle condizioni cliniche in cui abbiamo a disposizione poco volume osseo soprattutto in spessore, come nel nostro caso clinico. Ciò mi ha permesso di inserire, in una cresta ossea di 2 mm, degli impianti di diametro 2.9 senza esporre gli impianti, rimasti completamente sommersi nella compagine ossea, e senza dover ricorrere a tecniche di rigenerazione ossea maggiormente invasive per il paziente.
Scelti i mezzi, è stato programmato l’intervento previa esecuzione di una dima chirurgica che mi permettesse di sapere in che punto preciso inserire gli impianti, guidato da quella che sarebbe poi stata la loro finalizzazione protesica.
L’intervento è stato eseguito in anestesia locale, come un comune intervento di implantologia. Eseguito il lembo mucoperiosteo a spessore totale, è stata utilizzata la dima chirurgica per creare nella cresta ossea, con una fresa lanceolata, un invito in corrispondenza della posizione esatta degli impianti. Rimossa la dima, la preparazione dei siti implantari è stata eseguita utilizzando le frese osteocondensatrici a piccoli incrementi fino a raggiungere la profondità desiderata, nel nostro caso 14 mm, che è la lunghezza degli impianti utilizzati.
L’utilizzo progressivo di queste frese mi ha permesso di espandere gradualmente la compagine ossea, fino al raggiungimento del diametro finale pianificato di 3 mm. In questo caso, e comunque soprattutto in mandibola, ho preferito sovradimensionare leggermente l’osteotomia in modo che fosse di poco più larga del diametro finale dell’impianto, per evitare che le sue spire comprimessero eccessivamente le pareti ossee espanse, con il rischio di esposizione delle stesse o di deiscenze e/o fenestrazione della corticale ossea.
Preparati i siti con le frese dedicate, sono stati inseriti 4 impianti di diametro 2.9 e lunghezza 14 mm secondo le modalità sopra descritte. Solo per ridurre al minimo il rischio di riassorbimento osseo, soprattutto in cresta, zona maggiormente stressata nelle fasi di osteocondensazione ed espansione, ho preferito proteggere il sito chirugico attraverso un minimo riempimento con biomateriali eterologhi e una membrana riassorbibile fissata attraverso chiodini di osteosintesi.
Il post-operatorio è stato accompagnato da leggero gonfiore e dolore solo nell’arco delle 48 ore successive all’intervento. A distanza di 5 mesi dall’intervento è stata programmata la scopertura degli impianti. La successiva finalizzazione protesica, che ha richiesto un tempo di attesa di circa un mese, ha previsto l’inserimento dei tappi di guarigione, l’impronta e le varie fasi protesiche, sino alla consegna nel cavo orale della paziente di 3 corone in metallo ceramica supportate dai 4 impianti inseriti precedentemente. Il tempo di attesa tra l’intervento e la fine del lavoro è stato di 6 mesi. Infine, è stata effettuata una panoramica delle arcate dentarie per valutare radiograficamente il lavoro fatto.
CONCLUSIONI
La conoscenza di nuovi mezzi messi a disposizione dell’odontoiatria, di nuovi materiali e le nuove tecnologie a supporto della nostra professione ci permettono di effettuare anche interventi particolarmente complessi in modo mini invasivo, con minor morbilità per il paziente e riducendo enormemente i tempi di attesa tra l’intervento chirurgico e la finalizzazione protesica. Chiaramente questo caso clinico andrà seguito e monitorato negli anni per capire la risposta degli impianti e dell’osso al carico masticatorio.
Certamente, ci da un nuovo punto di vista, un approccio diverso, rispetto alle tecniche tradizionali che sono e restano a tutt’oggi il “gold standard” nel caso di deficit orizzontale con cresta ossea di spessore ridotto.
Come diceva Aristotele: “Per prima cosa cercate di rendere i vostri ideali ben definiti, chiari, pratici, trasformandoli in obiettivi. In secondo luogo verificate se avete tutti i mezzi necessari per perseguirli: capacità, soldi, materiali, metodologie. In ultimo fate in modo che tutti i vostri mezzi siano indirizzati al raggiungimento dell’obiettivo”.

Odontoiatra – Libero Professionista in Lecce – Consulente di Chirurgia Orale e Implantologia.