LA MIA ESPERIENZA DI FORMAZIONE IN SPAGNA E GRAN BRETAGNA
La mia posizione nei confronti del sistema universitario italiano è da sempre stata molto critica, in particolar modo per quanto riguarda la Medicina. I motivi sono vari e il problema complesso, ma cercherò di sintetizzare il più possibile quella che è la mia esperienza al riguardo.
Il primo passo da evidenziare ritengo che sia l’adozione di una corretta programmazione, e questo per due ragioni essenziali: la prima è quella di evitare il sovraffollamento delle Aule Universitarie e poi delle Scuole di Specializzazione e la seconda, che ne è diretta conseguenza, di prevenire carenze in settori nevralgici dell’assistenza sanitaria, quali ad esempio la Medicina di Base o l’Anestesia e Rianimazione ospedaliera. In tale ottica sono favorevole al mantenimento del tanto vituperato “numero chiuso”, dato che l’attuale situazione è frutto proprio di un’errata programmazione non certo dell’ostacolo iniziale del test di accesso! Ricordo bene quando la Facoltà di Medicina era aperta a tutti e le lotte nel post-laurea per ottenere sostituzioni e ripieghi vari, con l’unico risultato di non poter esercitare la Professione per la quale si erano fatti tanti sacrifici!
IN ITALIA POCA POSSIBILITA’ DI FARE PRATICA CHIRURGICA
L’altro argomento fondamentale, senza il quale il primo aspetto conta poco, è certamente la qualità dell’insegnamento. Purtroppo ancora oggi la maggioranza degli studenti che frequenta la Facoltà di Medicina ha il principale se non unico obiettivo di superare gli esami ed arrivare al più presto all’agognato Diploma di Laurea. Invece io ritengo che in primis essi dovrebbero esser affascinati, o quantomeno interessati alle varie materie presenti nel Corso di Laurea, anche da quelle che negli anni iniziali possono sembrare più ostiche e lontane dalla Medicina, ma che però sono i mattoni su cui si costruirà il futuro Medico. E a questa situazione, presente per mia esperienza nella maggior parte dei casi, contribuiscono molti Professori che non coinvolgono attivamente e con passione il Discente nella propria materia, probabilmente anche perché a loro volta scarsamente motivati.
E qui arriviamo alle dolenti note, specie per chi sceglie una branca chirurgica come quella che ho scelto io, dove c’è bisogno di “fare” in prima persona oltre che di “vedere” e studiare! E questo è uno dei punti cruciali su cui differisce il modus operandi italiano da quello adoperato all’estero. Ovviamente dipende molto dal Centro che si frequenta ma, in linea di massima, la mia impressione è che poco sia cambiato da quando mi laureai nel lontano Ottobre 1998 presso l’Università “Federico II di Napoli.
All’epoca in Italia non vi era alcun obbligo per le Scuole di Specializzazione di far fare training come Primi Operatori agli specializzandi, anche su interventi banali; d’altra parte, come ricordavo prima, eravamo davvero in tanti, per cui “mettere le mani” era veramente un’impresa e i nostri compiti si riducevano giocoforza a ruoli marginali in sala operatoria. Per tal motivo, chiesi al mio Direttore di allora, il Prof. Maurizio Cotrufo, di poter andare a fare una esperienza all’estero.
Arrivò la proposta di frequentare per un mese il reparto di Cardiochirurgia dell’Hospital Universitario della Vall d’Hebron di Barcellona, diretto dal Dottor Marcos Murtra Ferrè. Il tempo di sposarmi e volai subito in Spagna, dove da subito percepii una differenza: l’obiettivo principale dell’Università, infatti, era quello di rendermi autonomo al più presto possibile dato che da subito fui assegnato alla sala operatoria con compiti inizialmente semplici, ma sempre con un chirurgo anziano che mi seguiva e mi correggeva “sul campo”. Passato il primo mese il Dott. Murtra mi propose di restare con una borsa di studio, cosa che accettai con gioia, anche se con l’importo riuscivo a malapena a sopravvivere insieme a mia moglie. Poi nacque mia figlia, la borsa di studio raddoppiò e così il mese iniziale si trasformò in una esperienza di 3 anni, durante i quali iniziai ad operare in prima persona e mi specializzai.
Alla fine della Residencia, come si chiama in Spagna la Specializzazione, decisi di tornare in Italia al mio primo amore, la cardiochirurgia pediatrica e così approdai al Giovanni XXIII di Bari, col compianto Prof. Paolo Arciprete, dove però restai per pochi mesi, giusto il tempo di un avviso pubblico, dato che di concorsi non se ne parlava, gli interventi erano pochi e c’era poco spazio per me.
E allora armi e bagagli e via! Accettai di slancio a proposta di un posto come Senior House Officer presso l’Heath University of Wales in Cardiff col Prof. Francesco Musumeci, attualmente riconosciuto come uno dei migliori cardiochirurghi al mondo e che ancora oggi mi onora della sua amicizia. Feci così conoscenza col Sistema Sanitario Britannico, ancora più diverso dal nostro. Erano giorni duri ma che ricordo con molta nostalgia e nei quali ho appreso davvero tanto, grazie anche al fatto di lavorare con un chirurgo veramente fuori dal comune.
Sono rimasto nel Regno Unito per 2 anni e mezzo circa. Dopo Cardiff ho avuto la fortuna di approdare sempre come SHO al Great Ormond Street Hospital for Sick Children (GOSH) di Londra, forse l’ospedale pediatrico più famoso al mondo, dove invece dei canonici sei mesi, sono rimasto per un anno, lavorando con “mostri” del calibro di Jaroslav Stark, Marc Roger de Leval e Martin Elliott. Qui il “teaching” era molto più intenso e corposo rispetto alla Spagna. Un aspetto importante rivestiva l’attività di ricerca che doveva necessariamente andare di pari passo con l’attività operatoria. Al GOSH c’era l’obbligo di frequentare corsi di aggiornamento a cadenza settimanale di tipo molto pratico, come lo studio anatomopatologico di cuori malformati espiantati. Da notare che eravamo solo in sei, 4 Senior Registrar (Aiuti Anziani), di cui 3 americani, e 2 SHO. Questo faceva sì che fossimo seguiti in maniera ottimale dai Consultants (Primari) nel nostro percorso formativo.
Dal GOSH poi passai al Cardio-Thoracic Centre (CTC) di Liverpool dove ottenni un posto come Clinical Fellow Registrar Grade (per poi diventare Senior Registrar negli ultimi mesi di permanenza). Anche qui, massima importanza all’approfondimento scientifico, alla ricerca (anche se non come al GOSH) ed all’autonomia. Il Sistema formativo Britannico prevedeva già allora (1996) la compilazione di un “log book” di un libretto, cioè, dove il chirurgo doveva annotare tutti gli interventi cui partecipava e gli “skill” che apprendeva. Ricordo che per alcuni mesi non partecipai a nessun convegno e fui chiamato a renderne conto dal “board of surgeons”.
Come conseguenza mi inviarono completamente a spese dell’ospedale al congresso della Società Europea (EACTS) che quell’anno si teneva a Praga in Cecoslovacchia! Proprio come succede in Italia … Il mio compito al CTC era anche quello di istruire i SHO sui quali dovevo poi relazionare ai superiori: un sistema piramidale che funziona molto bene dato che ognuno è parte di un meccanismo perfettamente testato negli anni.
UNA DIVERSA MODALUTA’ DU TRASMISSIONE DELLA CONOSCENZA
A pensarci bene, nella mia esperienza la differenza più importante tra l’Italia e l’Estero ritengo sia proprio questa: la modalità di trasmissione della conoscenza. In Italia, ancora oggi e nonostante le importanti modifiche rispetto ai miei tempi, la trasmissione avviene ancora in via “verticale” (Prof in cattedra, studenti distanti sia fisicamente che emotivamente; manualità su interventi chirurgici limitata ad azioni marginali, poca partecipazione decisionale, pochissima ricerca etc.) e non “orizzontale” cioè col Prof che diventa un vero Tutor, che si pone a lato dello studente, con passione, e lo corregge ed indirizza (il “teaching” inglese!).
L’ultima considerazione va sul ruolo della Ricerca da sempre declassata in Italia e uno dei motivi principali della cosiddetta “fuga di cervelli” dalla nostra Nazione. La mancanza di lungimiranza e, diciamolo pure, l’ignoranza di chi negli anni si è seduto nei posti deputati alla gestione della Sanità e dell’Università, ha prodotto danni di cui oggi, grazie all’epidemia da SARS-CoV-2, sono evidenti a tutti le conseguenze.
Ciò detto, devo necessariamente puntualizzare che, nonostante i problemi cui ho accennato finora e per quanto sia denigrata da più parti, la Sanità italiana non ha niente da invidiare a quella di Paesi più blasonati e questo grazie ai tanti Professionisti che ogni giorno sono con coscienza ed abnegazione sul poto di lavoro. In quest’ottica, la possibile apertura della Facoltà di Medicina a Lecce ritengo sia un segnale forte e di speranza soprattutto per questo nostro tanto bistrattato Sud, anche perché la componente Ricerca dovrà esserne necessariamente il motore trainante, alla luce dell’innovativo indirizzo Tecnologico che la contraddistinguerà (MEDTEC).
La mia speranza è che gli errori fatti altrove siano d’insegnamento nella costruzione di questa nuova avventura. E’ una sfida emozionante e innovativa che guarda al futuro prossimo, dove il Medico dovrà necessariamente avere competenze anche bio-ingegneristiche in un’ottica di complessità crescente, tesa a migliorare significativamente la qualità di vita innovando le cure ma non tralasciando il rapporto Medico-Paziente, che è alla base di questa nostra Professione che rimane, nonostante tutto, la più bella e affascinante al mondo.
