Pur lontano, ormai da alcuni anni, da un’esposizione in prima linea nell’affrontare problematiche di natura politico-sanitaria, non posso assolutamente assistere oggi con indifferenza alle condizioni di estrema precarietà in cui versa la sanità, quella pugliese in particolare, e non portare un pur modesto contributo al diffuso dibattito in corso.
Una precarietà che viene da lontano, causata da improbabili, solo per usare un blando eufemismo, scelte politiche, per le quali, peraltro, non è mai esistita una differenziazione comportamentale fra governi di destra e governi di sinistra.
Entrambe le forze politiche, infatti, sia pur in tempi chiaramente diversi, sono state colpevoli, quando al governo del Paese o dell’ente Regione, di tagli scellerati e della “realizzazione”, grazie alla loro… “encomiabile” azione, di una graduale sofferenza del sistema pubblico, alla quale è poi seguita negli anni un’incapacità sempre più grave a erogare adeguate prestazioni sanitarie, fino a pervenire alle attuali condizioni di degrado, assolutamente inaccettabili e del tutto impensabili prima.
E chissà se ancora, pur parzialmente, recuperabili…
Perché entrambe, destra e sinistra, hanno fatto spudoratamente nel tempo il gioco delle parti, a seconda del ruolo al momento rivestito, pronte a criticare e demonizzare, quando all’opposizione, le scelte di politica sanitaria della parte avversa, ma altrettanto pronte a fare le stesse scellerate scelte, una volta tornate al timone.
Quindi una costante, penosa e continua inversione di ruoli a seconda del contesto operativo e chiaramente a supporto dei tanti, meschini interessi di parte.
Senza, peraltro, nessuna visione complessiva e oggettiva della realtà presente e soprattutto senza una dignitosa visione strategica e prospettica su come indirizzare i percorsi futuri.
Ed i risultati di tutto ciò, di tutto lo scempio determinato, sono, purtroppo, sotto gli occhi di tutti…
Sono state invece accomunate queste stesse forze politiche da un unico intento, quello di risparmiare e indirizzare i risparmi su altri capitoli di spesa, in assoluto sicuramente molto meno importanti rispetto a quello sanitario, ma certamente molto più importanti, anzi essenziali per i loro giochi di potere, per rendere i dovuti servigi alle loro clientele, oltre che per sè stessi e di certo per le loro utilità.
Guardando oggi al passato, non si può non provare nostalgia per gli anni ’70 e ’80, i quali, sotto certi aspetti, si potrebbero giustamente definire, pur con tutte le approssimazioni del caso, magici e anche “felici” per la sanità italiana in generale.
In quel periodo storico vi furono quantomeno idealità e tante progettualità, si crearono nel contempo tante speranze per una sanità da intendere in senso collettivo e ugualitario, senza differenze di ceto.
Lo Stato, quello con la S maiuscola, sembrò voler sviluppare un nuovo percorso, assistemmo al varo di una riforma, la Riforma della Sanità per eccellenza, la famosa 833 del ’79, che apportava una ventata di rinnovamento e che cercava di guardare lontano, di programmare un futuro fatto di miglioramenti attraverso un sistema universalistico, aperto a tutti i settori della società e senza distinzioni di sorta.
Un nuovo sistema, che intendeva consentire, altresì, spazi operativi nuovi agli operatori, di cui si prometteva di ampliare le competenze e di valorizzare l’opera, anche con una più giusta gratificazione.
Si chiamavano “tempopienisti” gli operatori medici di allora che intendevano applicarsi all’ospedale in via esclusiva; dedizione esclusiva che, associata alla necessaria competenza e professionalità, riportava nella categoria stimoli nuovi e nuova vitalità, una rinnovata coscienza operandi, un sentirsi tutti partecipi di un processo di rinnovamento in atto.
Si trattava di Medici formati in Ospedale, perché in Ospedale si era assunti con la sola laurea in Medicina e in Ospedale avveniva la formazione, per cui questi medici ”crescevano” sul campo in professionalità e conoscenza. La formazione, cioè, avveniva direttamente sul posto di lavoro, affiancando colleghi più anziani, più esperti e non per questo il servizio lasciava a desiderare. Tutt’altro!
Processo complessivo, che tanto contribuì al miglioramento assistenziale, soprattutto ospedaliero.
Ma, purtroppo, si è trattato di un processo breve, in rapida evoluzione, o meglio involuzione, perché ben presto quelle che erano state speranze e motivazioni forti, soprattutto in quel corposo gruppo che credeva nel sistema pubblico e nel tempo pieno, cominciarono a vacillare e a trasformarsi in mere e pie illusioni: Ospedali che venivano smembrati gradualmente di reparti o allora divisioni, cominciava a far capolino il blocco parziale del turn over, che in breve tempo sarebbe diventato totale, l’innovazione tecnologica cominciava a latitare, fino a pervenire al periodo ancora più buio, in cui interi blocchi ospedalieri erano letteralmente “cassati” dalla galassia sanitaria sulla base di un fantomatico rispetto di percentuali rapportate al numero di utenti.
Percentuali, cioè, letteralmente e totalmente “costruite” per pervenire allo scopo prefissato di tagli indifferenziati e immotivati; percentuali falsamente rapportate a statistiche prefabbricate ad usum delphini, nell’insulso tentativo di dare ai provvedimenti una parvenza di legalità e obiettività.
E fu così per anni e anni, mentre il sindacato cercava di contrastare, ma invano, questa progressiva deriva con agitazioni, scioperi, manifestazioni di piazza, alle quali i politici facevano apparentemente finta di guardare, ma alle quali in effetti non guardavano affatto, continuando invece indifferenti in quella che era un’effettiva “guerra” a quel sistema sanitario, che, secondo i loro principi o meglio secondo i loro “interessi” chiaramente impronunciabili, veniva ritenuto improduttivo o quantomeno non sufficientemente utile rispetto ad altri che, invece, ben calamitavano il loro interesse. E ne avevano ben donde…
Nel 1992, poi, con il decreto legislativo 502, l’“Ospedale” continuava ancora a perdere credibilità e l’Università, da sempre vogliosa di porre e imporre il suo potere sulla sanità, poteva cantar vittoria per l’obbligo alla specializzazione ai fini della possibilità di partecipazione per i medici ai concorsi ospedalieri.
Una chiara vittoria dei “baroni”, netta, incontrastata e incontrastabile, proprio perché al potere c’erano appunto “loro”. E chi non conosce l’allora ministro della Sanità Francesco De Lorenzo (ricordo a dir poco infelice), universitario, plurindagato, arrestato, figlio di cotanto padre, certo Ferruccio, a sua volta medico, universitario e massone, anch’egli arrestato e condannato per tangenti miliardarie in qualità di Presidente dell’ENPAM?
Era proprio lui, Francesco, Ministro della sanità nel 1992, e fu proprio lui a voler affermare l’assoluta primazia dell’Università, appunto imponendo nel D. Lgs. 502 la specializzazione quale requisito essenziale per la partecipazione al concorso per la dipendenza.
E di figure simili ve ne furono tante in quegli anni oscuri per la sanità.
Ebbene, come al solito, il tempo è galantuomo, per cui tutti i nodi vengono al pettine e giustamente, meglio cinicamente, la storia ha riportato moltiplicati i conti di tanto spudorato e pluriennale malaffare, per cui, come ben conosciamo dal mondo ellenico classico, alla tracotanza umana, quella appunto infinita e pluridecennale dei politici, non ha potuto che far seguito la nemesi, che trova la sua concretizzazione proprio nell’odierna condizione penosa e degradata della nostra assistenza sanitaria.
E, ironia della sorte, è purtroppo toccato a un’altra gravissima contingenza, quella della pandemia da Covid-19, scoperchiare il nefasto vaso di Pandora, facendo contestualmente esplodere all’improvviso e nell’impreparazione collettiva tutti i mali accumulati nel tempo, nonché tutte le contraddizioni, le inadempienze e le tante nefandezze compiute, consentendo finalmente a tutti (qualora ve ne fosse stato ancora bisogno) di prendere coscienza di un dato obiettivo, che cioè fino a oggi, con la sanità, la politica ha solo giocato e giocato malissimo.
A partire dalla grave condizione in cui versano oggi gli organici medici, soprattutto nei reparti emergenziali.
E ciò pur in presenza di medici disponibili, ai quali ancora oggi viene impedita la partecipazione a concorsi per la dipendenza a causa di quella disposizione-capestro dell’obbligo alla specializzazione.
Interi reparti con organici allo stremo, medici profondamente insoddisfatti in un contesto di strisciante frustrazione, molti di essi pronti a “far le valigie” per lidi migliori, medici in numero insufficiente anche a coprire la normale turnazione, tanto da doversi ricorrere costantemente alle cosiddette “prestazioni aggiuntive”, che, da emergenziali che erano e sono per legge, sono ormai divenute una normalità, una prassi consolidata.
E allora i soliti “pannicelli caldi”: assunzione di medici specializzandi. Partendo da quelli degli ultimi anni, ma poi a scendere e ancora a scendere… E questa è la serietà del legislatore! Quale differenza mai rispetto all’assunzione diretta dei laureati in Medicina?
No, dimenticavo…, l’Ospedale non deve avere prerogative di formazione. La formazione è stata, è e deve continuare a essere, solo e soltanto, prerogativa propria delle baronie universitarie…
L’Ospedale di formazione degli anni ’70 e ’80 resta perciò soltanto un sogno, dal quale purtroppo ci si è dovuti destare presto, molto presto.
Altro aspetto fondamentale, ma che potrà dispiegare i propri effetti solo a lungo termine, è costituito dal numero chiuso per l’ingresso alla Facoltà di Medicina, al quale finalmente dopo anni, e solo per le condizioni contingenti, la politica è stata costretta a interessarsi.
L’auspicio non può che essere di un passaggio graduale, affinché da una condizione di totale restrizione non si passi, come purtroppo spesso accade, all’esatto contrario, cioè al “liberi tutti”.
Infatti il numero di accessi alla facoltà di Medicina, come dovrebbe avvenire in un normale paese civile, dovrà essere chiaramente ampliato, e di molto, ma soprattutto preventivamente programmato e “dosato” sulla base di dati certi, rivenienti da statistiche certe e serie, nonché dall’analisi del tipo di strutturazione che si vorrà dare all’eventuale, nuovo corso.
Oggi, in presenza di una condizione di estrema sofferenza e con lo spettro della pandemia ancora davanti a noi e a dominare sul contesto civile, oltre che sanitario, si continua a parlare e discutere tanto, si stanno facendo immense promesse, e per fortuna anche tanti mea culpa per il passato.
Saranno veri mea culpa o di farisaica memoria?
All’orizzonte, però, non si intravede ancora assolutamente niente, gli impegni per il PNRR sono molto vaghi e comunque lontani dall’essere una realtà; peraltro sono stati già in parte vanificati dalle catastrofiche vicende della guerra in Ucraina.
Perciò, senza farsi soverchie illusioni, bisogna purtroppo convincersi che ci attendono ulteriori anni di sofferenza, dal momento che almeno due generazioni di medici mancano all’appello negli ospedali per gli improvvidi blocchi effettuati e che oggi, purtroppo, non si può fare altro che continuare ad “arrangiarsi” in attesa che “passi la nottata” e tenendo ben presente che i processi non saranno certamente di breve respiro, le bacchette magiche non esistono, soprattutto nel nostro settore.
Anche perché quanto previsto dal PNRR, ospedali all’avanguardia, digitalizzazione ecc., richiede tempi non certo brevi per la realizzazione e, a parte i tempi, non sono certo le strutture logistiche quelle al momento prioritarie.
Oggi, infatti, necessita in primis dare l’impulso necessario all’avvio dei provvedimenti per ripristinare adeguati livelli di personale medico nelle strutture, proprio attraverso una programmazione puntuale ed efficace, avendo il coraggio di tracciare un percorso che sarà sicuramente impervio e lungo e con la certezza che comunque bisognerà attendere i tempi realizzativi necessari.
Al momento, perciò, la parola d’ordine non può che essere quella di cercare almeno di tamponare le condizioni di degrado con le forze in campo, anche attraverso una loro migliore utilizzazione.
E per fortuna, bisogna riconoscerlo, nelle condizioni in cui siamo stati spinti, il privato sta dando un valido aiuto e sostegno, contribuendo in modo non più residuale a tamponare situazioni ormai alla deriva.
Contributo senza il quale forse oggi non saremmo solo alla deriva, ma avremmo dovuto inevitabilmente e sicuramente alzare bandiera bianca.
Per questo, un suo maggiore e più costante coinvolgimento in un particolare momento di sofferenza, prioritariamente fatti salvi i dovuti controlli di qualità, andrebbe opportunamente valutato ed eventualmente adottato quale contributo non più integrativo, ma sostanziale al sistema sanitario.
Aldo Paolillo
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Caro Aldo,
da Medico Ospedaliero “tempopienista” ed esponente di punta del sindacalismo medico di una volta, puntuale e costruttivo, fai una cronistoria ineccepibile delle vicende che hanno interessato la sanità italiana degli ultimi decenni ed una analisi obiettiva della grave situazione che noi Medici stiamo vivendo, negli Ospedali e sul Territorio.
Nella seconda metà degli anni ’70 vigeva una legge “buona”, quella del “tirocinio ospedaliero” che forniva al Servizio Sanitario Nazionale, in poco tempo ( sei mesi per tutte le discipline, dodici mesi solo per Anestesia/Rianimazione e Radiologia ) fior di “specialisti sul campo”, motivati, entusiasti, e che soprattutto fungevano da potente stimolo culturale per i propri tutor ospedalieri, così di fatto determinando un “corto-circuito virtuoso” a vantaggio della qualità dell’assistenza ospedaliera e con ripercussioni positive anche sulla Medicina del Territorio. Come tu opportunamente ricordi, si instaurò in breve una spinta poderosa all’aggiornamento sul campo, all’innovazione, alla sana competizione, in definitiva un clima di vivacità culturale favorito dalla presenza in Ospedale di energie “fresche” ansiose di apprendere “lavorando”. Purtroppo in Italia le leggi “buone” durano poco. L’adeguamento agli standard europei significò in Italia il trasferimento della formazione specialistica dall’Ospedale all’Università, ed agli specializzandi i “baroni“ (la maggior parte, non tutti ovviamente) hanno spesso affidato compiti che nulla avevano a che vedere con la formazione, e ciò mentre in altri Paesi Europei (Austria, Germania, Francia etc.) l’Ospedale ha mantenuto intatto il suo ruolo di “fulcro” della formazione specialistica.
E poi successivamente: taglio indiscriminato di posti letti alla ricerca di un equilibrio economico mai raggiunto (o meglio, irraggiungibile), numero eccessivamente chiuso nell’accesso alle Scuole di Medicina, carenze di organico, presunta malasanità e conseguente medicina difensiva, e tanto altro ancora. Ci troviamo ora a discutere se la “nuova” Sanità debba privilegiare l’Ospedale o il Territorio, con miopia ci si accusa vicendevolmente di visione “ospedalo-centrica” o “territorio-centrica”, e molti ancora non si sono resi conto che, lungi dall’essere conflittuali, Ospedale e Territorio stanno sulla stessa barca, sono vasi comunicanti, se non funziona l’uno non funziona neanche l’altro, ed è ciò che purtroppo stiamo vivendo.
(Silvio Colonna)
Dr. Aldo Paolillo
Medico Nefrologo