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Ennio Brunetta

Numero 2 – 2021

Intervista a cura di Silvio Colonna

A colloquio con Ennio Brunetta: infettivologo, pneumologo, sassofonista jazz

 

D) Caro Ennio, partiamo dalla musica. Il sassofono è un tutt’uno con te, sembra un vestito che ti è stato cucito addosso. Quando e come è nata in te questa passione per il sassofono ed il jazz?
R) Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia dove sin dai primi anni di vita ho assistito ad incontri musicali ed ascoltato la voce di vari strumenti. Mia madre era pianista. Ho conosciuto il jazz da giovane durante il servizio militare a Firenze. Sono stato affascinato da questa musica perché quando un musicista jazz si lancia in un assolo, esprime il suo stato d’animo di quel momento. Egli deve mettere insieme il ritmo che è la componente matematica della musica e l’armonia che è la fisica del suono per sovrapporre in modo estemporaneo il suo pensiero assolutamente libero e creativo. Nello stesso modo essere medico significa rispettare con grande rigore il sapere appreso dallo studio fatto in ambito universitario e dall’aggiornamento quotidiano, ma significa anche confrontarsi con il mondo emotivo del singolo paziente, unico nel suo essere e divenire.

D) Ti hanno visto suonare il sax alle Cesine o in altri luoghi incontaminati del Salento, in piena solitudine. Quali emozioni e quali sensazioni avverti in quei frangenti?
R) Mi piace suonare nei boschi o di fronte al mare perché l’ambiente funziona da catalizzatore tra me e me stesso. L’unico modo per arrivare ad un dialogo con me stesso penso sia quello di capire quali frequenze fanno sì che le mie cellule e il mio stare nel mondo siano in armonia. Qualcuno dice che se riusciamo ad accordarci con la natura, siamo già a buon punto nel comprendere il significato della nostra esistenza.
D) La tua attività di Medico ha risentito in modo positivo di questa tua passione per la musica?
R) Il medico ha la fortuna di suonare lo strumento più bello e meraviglioso che madre natura gli fornisce cioè l’uomo, ma deve essere in grado di sentire la musica di tale strumento e saperla interpretare. In questo modo arriva a conoscere se stesso. Non si può pensare che questo strumento sia fatto solo di ossa e muscoli ed organi. C’è il non visibile sul quale, da sempre, tutta l’umanità si interroga.

D) Non solo musica. Sei stato promotore di iniziative che esaltano il legame tra Arte e Medicina, e hai realizzato un sito il cui nome è appunto www.reteartemedicina.it Vedi nell’Arte una valenza terapeutica? Pensi che la creazione di un’opera artistica o anche semplicemente il suo godimento possa essere un aiuto alla guarigione?
R) L’arte è il frutto della parte non visibile dell’uomo, fatta di frequenze. Per entrare nell’arte bisogna catturare tutte quelle frequenze che si traducono in emozioni, le emozioni a loro volta arrivano ed influenzano il genoma della cellula. Allora è possibile affermare che lo stato di benessere o di malessere si traduce in una condizione biochimico-metabolica della cellula e quindi l’arte ha un potere terapeutico riconosciuto da tutti i popoli. La bibliografia è infinita.
Cito solo lo scienziato Carlo Ventura (Università di Bologna) il quale prende la musica della cellula staminale, la somministra alla cellula stessa e ottiene la riparazione di tessuti danneggiati da un infarto. Al momento la sperimentazione, fatta con successo sul maiale, è in programma sull’uomo.
La musicoterapia è una scienza universalmente riconosciuta, pertanto mi sembra superfluo parlare dell’efficacia della musica sullo stato di benessere del paziente. A mio parere è un farmaco e come tale va somministrato al momento giusto (diagnosi) e in giusta dose in quanto si possono avere degli effetti collaterali indesiderati. Tutto dipende dal mondo emotivo del paziente. In Canada da qualche anno il medico di base, in particolari patologie, può prescrivere delle visite gratuite al museo. L’arte in ospedale è una panacea tanto per il paziente quanto per il medico e tutto il personale sanitario (sindrome di Burnout).
Il mio sogno è fare Arte tanto in Ospedale quanto nell’ambulatorio del Medico di Base.

 

Ennio Brunetta

 

D) Gli attori principali di un processo di cura sono rappresentati dal Medico, dall’Infermiere e dal Paziente. Nell’ambito di tale processo le relazioni reciproche tra questi tre soggetti sono indifferenti o ciascuna di esse ha una diversa coloritura?
R) Per rispondere a questa domanda mi servo di una metafora musicale, quella dell’accordo. Do, mi, sol, sono tre note che suonate in contemporanea formano un accordo. Il do è la dominante, vale a dire è la frequenza per eccellenza che dà il senso della vita. Do, mi, sol ……1-3-5 accordo perfetto dettato da madre natura. Nel quotidiano il do è il medico che propone e decide, il mi l’infermiere che esegue, il sol è il paziente che riceve. Il medico come un direttore d’orchestra scrive lo spartito e l’arrangiamento, l’orchestra è composta da tutti i pazienti che incontra durante la sua vita professionale alla luce del fatto che ogni paziente suona uno strumento diverso. Al do, mi, sol, si possono aggiungere altre note che sono i familiari, gli amici ecc.

D) Medico Infermiere e Paziente operano in un contesto sociale che ha le sue peculiarità. Si pensi all’impatto sullo stato di salute e di benessere di particolari condizioni, quali la polietnia, l’immigrazione, l’integrazione sociale, l’adozione, la religione, la povertà, la disoccupazione, la disabilità. Può il medico disinteressarsene e preoccuparsi solo di prescrivere esami e farmaci? Quanto è importante, nell’attività del Medico, la sensibilità verso queste problematiche che la pandemia in corso ha reso ancora più pressanti?
R) La risposta a questa domanda è nel percorso che io definisco di “umanizzazione della medicina”, l’uomo al centro del pianeta sanità. Il medico di oggi ha un orizzonte operativo più ampio rispetto al medico di trenta/quarant’anni fa. Le innovazioni più importanti che caratterizzano, nel bene e nel male, la società di oggi e di conseguenza la medicina sono: la digitalizzazione, la robotica, l’immigrazione, la falsa informazione. L’università per formare meglio il giovane medico dovrebbe completare il piano di studi aggiungendo: informatica medica e filosofia. Per chiarire meglio quello che intendo vorrei fare riferimento agli studi di Giacomo Rizzolatti (Università di Parma), il quale, circa 20 anni fa, ha scoperto i neuroni specchio che, come è noto, sono le cellule dell’empatia, dell’imitazione. Questo concetto è, secondo me, alla base del rapporto medico-paziente. Infatti madre natura ha stabilito che l’uomo si differenzia dagli animali perché è in grado di ascoltare la musica dell’altro.

Ora le cose sono un profondamente cambiate, a causa della tecnologia. Certamente bisogna ammettere che la tecnologia ha un grande valore per la medicina odierna. Anche se hanno polarizzato l’attenzione dell’uomo moderno, allontanandolo dalla bellezza della natura, le tecnologie digitali ci danno una possibilità di diagnosi e terapia che trenta anni fa non ci sognavamo. Comunque, i maestri della medicina di un tempo dicevano che nel settanta per cento dei casi la diagnosi la fa il paziente, basta saperlo ascoltare. Per tornare al dialogo medico-paziente bisogna dire che dal punto di vista economico i vantaggi che esso presenta sono enormi perché:
– Si risparmiano esami inutili e qualche volta dannosi, a causa dello stato di ansia che può generare l’attesa di una diagnosi.
– Si risparmiano giornate di lavoro del personale medico, paramedico e del paziente.
– Quasi si annulla la medicina difensiva perché il dialogo emotivo tra medico e paziente genera stima e fiducia, facendo risparmiare così molti miliardi di euro.
Allora tutto dipende dalla capacità che ha il medico di mettere in atto una comunicazione di tipo emotivo. Siamo arrivati finalmente a spiegare cos’è l’umanizzazione della medicina, nient’altro che la ricerca dell’uomo. Il medico oggi più che mai deve uscire dal suo ambulatorio e confrontarsi con una società che si evolve vertiginosamente in direzione purtroppo imprevedibile. Deve saper ascoltare ed intervenire adeguatamente in un contesto multidisciplinare.
Personalmente ho fatto esperienza di multidisciplinarietà nel mio ambulatorio per aver accolto il progetto della dott.ssa Tiziana Dollorenzo, psicanalista junghiana: “La multidisciplinarietà nell’ambulatorio del medico di base”. Si discuteva di temi socio-sanitari ed erano presenti a questi incontri quindici dei miei pazienti scelti a caso, la psicanalista con i suoi allievi (laureati in fisica, matematica, economia, legge, lettere classiche, ingegneria) e alcuni artisti (musicisti, pittori, scultori, poeti, architetti ecc.) che ruotavano volta per volta in base all’argomento che veniva trattato. L’incontro durava rigorosamente 90 minuti e si discuteva dando voce alle scienze e all’arte.

Dopo quella esperienza, per circa 10 anni, ho organizzato degli incontri mensili con i miei pazienti, sempre tra scienza e arte.
Valeva la regola del 20 più 10, cioè 20 minuti di scienza e 10 minuti di arte: per esempio prima una relazione di un filosofo, che trattava l’argomento del giorno, e poi l’intervento di un poeta o di un pianista, e così di seguito per un totale di circa due ore compresa la discussione.
L’effetto di tutti questi incontri è stato una condivisione di emozioni tra me e i miei pazienti. Si ascoltava buona musica, si proiettavano immagini, si raccontavano esperienze di vita. Spesso mi capitava di suonare il sassofono con i pazienti mentre alcuni di loro disegnavano o declamavano una loro poesia. Un’atmosfera fatta di ascolto e sinergia interpersonale. Se pensiamo che una condivisione di una emozione si può verificare per esempio, tra madre e figlio, tra marito e moglie, tra due amici, dobbiamo ammettere che può succedere anche tra medico e paziente. I nostri neuroni specchio si mettono in azione e mettono in atto un effetto di una risonanza tra loro. Come conseguenza di quella esperienza, è successo che pazienti di vecchia data spontaneamente mi hanno fatto partecipe delle loro vicende personali e familiari… come se si fosse rinnovato e rinforzato il nostro rapporto. Altri pazienti mi portavano in dono i loro manoscritti, poesie, libri, quadri ecc… Stima e fiducia si creavano nella nostra memoria a lungo termine.

Tutto questo può verificarsi in tutti i pazienti di qualsiasi età, nazione, colore della pelle, ceto sociale, religione ecc. essendo l’arte un linguaggio antropologico universale che trae origine dalle emozioni profonde. Si lascia spazio a Mozart, Van Gogh, Chopin, Charlie Parker, Manzoni, Leonardo ecc.… Sono Loro che parlano per noi. Altro fattore importante per l’umanizzazione della medicina è l’ambiente in cui soggiornano il paziente, i familiari, i medici, gli infermieri.
Oggi sono molti gli ospedali in cui si dipingono le pareti con colori ed immagini curati da grandi artisti (sale d’attesa, corridoi, sale operatorie).
A Torino e Venezia ci sono i giardini terapeutici fatti per i disabili. A mio parere anche la sala d’aspetto del pediatra di base e del medico di famiglia va curata e studiata al fine di renderla accogliente e confortevole.

D) Nella pandemia in corso abbiamo visto malati chiusi in scafandri di plastica senza possibilità di comunicazione con i medici e gli infermieri, protetti a loro volta come astronauti. Inoltre migliaia di donne e uomini sono morti senza un bacio, un abbraccio, una carezza da parte dei loro cari. Tutto ciò ha reso palpabile la disumanità di questa malattia. Come sarà possibile rimarginare le profonde ferite che questa pandemia lascerà? Come poter arricchire di umanità i processi di cura?

R) Come infettivologo posso dire che in tanti anni di lavoro in ospedale mai il virus ci ha fatto tanta paura da negare l’ultimo saluto ad un essere umano. Ovviamente si prendevano tutte le precauzioni. Il medico in questo attimo di anticamera verso l’eterno non è altro che quello che ha perso la scommessa. Una sconfitta a cui non ci si abitua mai. La disumanità di questa malattia è frutto della paura che alberga nell’animo umano. Le cellule hanno bisogno delle vibrazioni di un pensiero positivo per creare gli anticorpi contro la malattia. Se si ride si allungano i telomeri.

D) La malattia di per sé crea tristezza, paura, insicurezza, disagio sociale. E se dovessimo invece dire “ridiamoci sopra”?
R) Se ridi vinci….. Il coronavirus è fortemente contagioso ma anche la risata è fortemente contagiosa. Ad un’azione unica corrispondono risultati completamente diversi uno dall’altro. Il buio e la luce. Gli estremi si toccano, infatti si suole dire ‘morir’ dalle risate. Ma quale è l’effetto di entrambi? Uno la morte, l’altro la vita.
Per esistere hanno entrambi bisogno l’uno dell’altro. Allora una sintesi dei due è morire ridendo. Ma a mio parere per ridere al momento dell’ultimo respiro bisogna avere il conforto dei familiari o degli amici. Ma se la risata è tanto contagiosa ed è indispensabile per comunicare la gioia di vivere, perché viviamo nell’angoscia del nulla?

D) Provocare la risata attraverso lo sviluppo di situazioni umoristiche si inserisce quindi a pieno titolo nel processo terapeutico?
R) Gli antichi greci avevano grande rispetto della natura la quale insegnava che l’uomo nasce e muore e gli Dei avevano il compito di rappresentare passioni e le debolezze degli uomini. Il cristianesimo ha avuto e ha grande successo perché con il paradiso promette l’eternità. Oggi il Transumanesimo tende a risolvere il problema della morte con la ragione cioè servendosi della tecnologia. Le parole chiave sono intelligenza artificiale, genetica, ibernazione. Non è raro sentire la frase “come è possibile che è morto, con tutti i mezzi che abbiamo oggi” Il medico oggi ha il compito di educare il paziente all’idea che si nasce e si muore, ma si può vivere felici.

D) Come?
R) Ce lo dice la favola dei tre cinesi che quando arrivavano in un paese invece di fare il sermone ridevano e ridevano a crepapelle. La gente, anche senza sapere il perché, rideva insieme a loro sino a quando rideva tutto il paese.
Succede che un giorno muore uno dei tre cinesi il quale prima di morire aveva nascosto sotto la tunica dei fuochi di artificio, ed allora quando fu cremato scoppiarono i fuochi e tutti i presenti si misero a ridere per l’ultimo saluto.

Fare il medico o essere medico. Una gran bella donna che sempre mi ha fatto impazzire e che non ho mai posseduto si chiama Medicina.
L’ho corteggiata di giorno e di notte, ma proprio quando pensavo di averla posseduta, proprio allora mi sono reso conto di aver fallito. Ero sicuro che le ero simpatico e che tutto sommato le piacevo, ma era vezzosa, frizzante, apparentemente facile da conquistare, ma all’improvviso mi lasciava di stucco.
E tutto ricominciava ogni volta in modo diverso e non usuale. Vinceva sempre Lei. Fare il medico o essere medico. Era questo che mi sussurrava nell’orecchio.
Quando un musicista jazz si lancia in un assolo esprime il suo stato d’animo di quel momento. Egli deve mettere insieme il ritmo che è la componente matematica della musica e l’armonia che è la fisica del suono per sovrapporre in modo estemporaneo il suo pensiero assolutamente libero e creativo.
Essere medico allora significa rispettare con grande rigore il sapere appreso dallo studio fatto in ambito universitario e dall’ aggiornamento quotidiano, ma significa anche confrontarsi con il mondo emotivo del singolo paziente unico nel suo essere e divenire. Per molti anni ascoltavo, riflettevo, ma non capivo l’essenza del discorso. Dopo alcuni decenni di giochetti amorosi con Lady Medicina ho capito cosa voleva dire: Lo Stato ti dà la qualifica per fare il medico, il riconoscimento che sei medico lo ricevi dal paziente. Bisogna saper ascoltare la musica del paziente e di tutti coloro che operano per Lui.

ENNIO BRUNETTA

Ennio Brunetta vive a Lecce
Infettivologo-pneumologo-sassofonista jazz
www.reteartemedicina.it
mail lecaveau@libero.it

 

Editoriale Dr. Colonna Salvatore Silvio
Dr. Colonna Silvio
Anestesista e Pneumologo, Lecce

 

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