Numero 2 – 2020
Scritto dal Dr. Giuseppe Pulito –
Direttore S.C. Anestesia e Rianimazione. Ospedale Vito Fazzi Lecce
LA CORSA CONTRO IL TEMPO PER PREPARARCI AD AFFRONTARE AL MEGLIO LO TSUNAMI INVISIBILE
Un’esperienza che non avremmo mai immaginato di fare: essere attori protagonisti di uno di quei film di catastrofi in cui già sai che sarai travolto, ma non sai né come né quando, se sarai in grado di affrontare l’imprevisto, quanto durerà, se sopravviverai. Le notizie e le immagini delle regioni del Nord ci giungevano come sequenze virtuali, ma sapevamo che erano reali e che presto sarebbero uscite dal piccolo schermo per investirci in pieno come l’onda alta di uno tsunami. Abbiamo potuto osservarla sollevarsi all’orizzonte, quell’onda immensa, e avvicinarsi lenta e inesorabile nella nostra direzione, e abbiamo pregato perché la sua furia si placasse prima di raggiungerci. Avevamo un vantaggio, certo, rispetto ai colleghi del Nord: il fattore tempo che ci dava la possibilità di organizzarci, ma soprattutto di prepararci psicologicamente.
E l’abbiamo utilizzato quel tempo, per studiare, per seguire i webinar, per fare nostre le prime strategie e le successive rettifiche, per stilare bozze di protocolli, flowchart, per cancellare e riscrivere sulla base di un susseguirsi di evidenze in divenire. Abbiamo aspettato il nemico sulla linea del fronte cercando di sfruttare il nostro vantaggio per scrutarlo da lontano e non farci cogliere del tutto impreparati. Ma come in un deserto dei Tartari l’attesa è anche paura, e abbiamo guardato con terrore la stazione di Milano invasa dalla folla, i treni in corsa verso il Sud, stipati di esseri umani che potenzialmente potevano essere portatori del nemico invisibile.
E’ l’11 marzo 2020, la Rianimazione di Lecce apre le porte al primo paziente Covid. Il reparto Malattie Infettive aveva accolto già i primi malati con tampone positivo, e noi del personale sanitario monitoravamo il loro andamento clinico con aggiornamenti continui che ci passavamo puntualmente in consegna. Al primo peggioramento, che sapevamo sarebbe avvenuto, saremmo dovuti intervenire come rianimatori. Ogni turno in rianimazione poteva essere quello del temuto primo ricovero Covid. Ogni giorno ripassavamo su YouTube il video tutorial delle sequenze di vestizione e svestizione, memorizzando i passaggi, cercando di tranquillizzare la mente nel ripeterli e mimandoli con i gesti. Gli infermieri del turno di notte erano terrorizzati all’idea di dover ricoverare il primo paziente Covid. Tutti avevamo paura, solo gli incoscienti non ne hanno. Ma bisognava tenerla a bada, la paura, ed i medici di guardia ostentavano sicurezza per poterla infondere a tutta la squadra perchéla paura genera il panico, il panico l’errore, e l’errore mette tutti in pericolo, personale e paziente. Abbiamo ripassato insieme il lavoro di preparazione giàfatto, l’elenco dei dispositivi di sicurezza, la distinzione tra percorso sporco e percorso pulito e ancora le procedure di vestizione e svestizione. Quei gesti in sequenza, che ripetevamo con attenzione maniacale per scongiurare il pericolo della contaminazione, da lìa poco sarebbero diventati familiari e parte integrantedella nostra routine lavorativa.
Dopo la prima paziente dell’11 marzo in una zona di isolamento all’interno della nostra Rianimazione generale, è stata immediatamente la volta del secondo paziente, proveniente dall’ospedale di Bergamo. Era un giovane di nazionalità marocchina. Era stato intubato per insufficienza respiratoria e, per mancanza di posti letto nelle terapie intensive bergamasche, era stato trasferito nella notte a Lecce, attraverso volo militare e trasporto in ambulanza con barella di biocontenimento. Da lìa poco i pazienti intubati sarebbero aumentati gradualmente, e ben presto tutto il reparto Rianimazione sarebbe stato dichiarato infetto e dedicato interamente agli ammalati di Covid. Il paziente di Bergamo è stato uno dei primi, ma la sua storia ci ha colpito perché ha messo in luce un altro aspetto terribile di questa malattia: la solitudine. Era un uomo solo in un paese straniero; avevamo i suoi dati anagrafici ma non un indirizzo di casa, non un numero di telefono di un familiare; non sapevamo se avesse una moglie o dei figli. Si era recato in ospedale con una borsa, contenente tutti i suoi averi che, purtroppo, in seguito non avremmo saputo a chi restituire. Anche senza dircelo, ognuno di noi ha immaginato la disperazione che ha spinto quel giovane a lasciare il proprio paese per una vita migliore, le sue paure, le sue fatiche, le sue umiliazioni, i suoi sogni. Ognuno di noi, guardando le sue braccia inerti e scure sul bianco del lenzuolo, ha immaginato quelle braccia arrampicarsi sulla cima di una barca di salvataggio, tendersi verso quelle di un compagno, afferrare uno spuntone di roccia, affondare nella sabbia di una terra che poteva essere il suo futuro.
Ma l’isolamento è un aspetto comune a tutti pazienti affetti da Covid. L’impossibilità per loro di avere il conforto da un volto familiare nella fase di risveglio dalla sedazione, si associava al dramma sofferto dai familiari costretti a casa dalla quarantena. Molti di loro hanno salutato i propri cari mentre salivano in ambulanza, e non li avrebbero rivisti mai più. Le telefonate ai parenti a casa per comunicare buone nuove sono alcuni dei momentigratificantidella nostra routine da medici del Covid. Telefonate attese con ansia da interlocutori spaventati, ai quali troppo spesso si sondovute dare tristi notizie senza poter mai nemmeno incrociarne lo sguardo. Con lo stesso coinvolgimento abbiamo partecipato alla gioia nell’apprendere i primi successi terapeutici. Abbiamo voluto celebrare questo segnale positivo introducendo le videochiamate tra i pazienti ricoverati in fase di miglioramento e i parenti a casa. Qualcosa che andava contro le regole della Rianimazione ma che, in questa circostanza senza precedenti, ha regalato forti esplosioni emotive espresse con sorrisi e lacrime di gioia ad ambo le parti, ma anche a noi operatori. Ne avevamo tutti bisogno.
Nel pieno del picco dei contagi a Lecce, il nostro Ospedale ha poi potuto contare sull’apertura della nuovissima struttura del DEA, adiacente al nostro presidio. Una circostanza unica che ha messo a disposizione più posti letto di terapia intensiva, e che ci ha reso più preparati ad un eventuale aumento dei casi. Molti di noi medici e infermieri hanno messo a disposizione il proprio impegno e il proprio tempo in maniera incondizionata perché il progetto e i percorsi potessero essere approntati nel migliore e più veloce modo possibile. Un’ulteriore sfida, che ci ha visto coinvolti anche nel difficile trasferimento di pazienti critici, per poter lavorare in un ambiente strutturalmente piùefficace nel garantire standard di sicurezza e di isolamento, anche a tutela dei pazienti “non-Covid” che accedevano al Fazzi.
Questa è una sintesi scarna della nostra esperienza in Rianimazione a Lecce durante l’emergenza Covid, certamente insufficiente a raccontare fatiche, scoramenti, dubbi, stati d’animo dalle infinite sfumature. Noi, medici e infermieri coinvolti, non vorremmo che il termine “eroi”, che tanto spesso ci è stato attribuito, come leimmagini di operatori sanitari in tuta e mascherone, diventassero sui social mere forme di esibizionismo. Vorremmo piuttosto che l’emergenza sia valsa a puntare i riflettori sull’importanza del nostro ruolo, che è sempre stato lo stesso anche nei momenti di minore clamore mediatico. Chi era giàun professionista di valore, in questa circostanza lo ha messo maggiormente in luce, tutto qui. Questo periodo di massimo impegno ha forse amplificato le nostre capacità, di fronte ad un nemico sconosciuto e letale, ma ci ha fatto anche fare i conti con le nostre paure: paura di perdere i nostri pazienti, paura di ammalarsi, di contagiare le persone care che ci aspettavano a casa, figli piccoli, genitori anziani. La maggior parte di noi ha reagito tirando fuori tutta la forza necessaria, e tutto il coraggio indispensabile per non sottrarsi al proprio dovere. E poi c’è chi è stato immobilizzato dal terrore ed è stato costretto per questo a fare un passo indietro. Una realtà minore, per fortuna, che sicuramente non fa notizia ma che purtroppo esiste. Cos’è l’eroismo: forse è solo una paura cieca che ti annienta e ti fa andare avanti per inerzia senza pensare ai rischi; forse è quell’energia insospettata che ti fa procedere per istinto primordiale di conservazione; o forse è quel coinvolgimento emotivo che ti fa vedere sul volto del paziente quello di tuo figlio, di tua madre, di tuo fratello.
Oggi ti dici: “Ce l’ho fatta a resistere”, anche se, forse, avrei potuto fare di più. Certo i morti pesano come macigni, tuttavia ogni paziente guarito è un’intima gioia impagabile che scaturisce dalla consapevolezza di appartenere ad una squadra di cui andare fieri. Infine un’ultima considerazione: quest’esperienza ha insegnato a dubitare delle certezze del nostro tempo. Nulla è scontato, nessuna condizione è stabile, ed è dono degli umani saper reagire anche in modo rapido e deciso, e adattarsi a nuove situazioni, per poi ricominciare.
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Presi dal panico, alcuni “decisori” hanno pensato di poter inventare , dall’oggi al domani, nuove Terapie Intensive, chiamandole “astronavi”, create ex novo addirittura in contesti non ospedalieri. Tali “ astronavi “ non sono state utili e non potevano essere utili. Fortunatamente la pandemia ha rallentato il suo corso, e di conseguenza è diminuita l’incidenza di soggetti suscettibili di Terapia Intensiva. Ma, se fosse malauguratamente successo il contrario, il progetto messo in atto avrebbe ancora di più evidenziato la sua intrinseca debolezza : quei letti, lungi dall’assicurare maggiori possibilità di sopravvivenza, avrebbero creato solo illusioni e false speranze perché agli ammalati sarebbero mancati i livelli di assistenza medica ed infermieristica di cui avrebbero avuto bisogno.
Raddoppiare improvvisamente i posti di terapia intensiva non significa aumentare la qualità dei trattamenti, anzi è proprio vero l’opposto. Il posto di Terapia Intensiva non è un’accozzaglia di strumentazioni più meno sofisticate : hanno pensato di mettere insieme un letto , un monitor ed un respiratore, qualche pompa d’infusione , ed ecco fatto il posto di Terapia Intensiva da sbandierare ai media!
Fare Terapia Intensiva significa tutt’altro : significa avere le persone giuste con le strumentazioni idonee; significa la presenza di personale medico ed infermieristico adeguatamente formato nella cura del paziente critico ed in numero sufficiente ; significa poter disporre in loco di competenze specialistiche ( cardiologiche , neurologiche , endoscopiche , etc ) , ancor più necessarie nella cura di una patologia così complessa, multisistemica e “nuova” come quella da Covid. Lo sanno bene i Medici e gli Infermieri del Centro di Rianimazione di Lecce, che si si sono trovati faccia a faccia con questa terribile ed “originale” patologia , faccia a faccia con ammalati coscienti che lottavano per vivere , faccia a faccia con il rischio di essere infettati e di portare l’infezione a casa trasmettendola ai propri cari . Sorge spontaneo dire “grazie “ a coloro che hanno dovuto mettere a rischio la propria vita per adempiere al loro lavoro, a coloro che si sono dovuti sottoporre a turni estenuanti “senza fine” , a coloro che hanno subito il sovraccarico emotivo nel vedere, impotenti, lo spegnimento di vite , la morte “in diretta” di persone che erano consapevoli dell’ineluttabilità della propria fine. Grazie di cuore a chi ogni giorno si è dovuto confrontare con la paura dr. Carmelo Catanese, Giusi Sturdà, Paolo Leaci, Donatella Mastria, Daniela Puscio, Francesco Lerose, Maria Grazia Bruni, Marcello Gorgoni, Diego Friolo , Dario Alicino , Benedetta Marulli, Paola Torsello, Rosa Dollorenzo, Emanuela Modugno, Rosella Barbieri, Francesca De Carlo, Eugenia Mazzotta , Adam Nicolas, Maria Tarantino ed altri ancora che hanno assicurato i turni in quel drammatico periodo. Grazie alla Caposala Maria Mocavero , a tutti gli Infermieri ed a tutto il personale.
(Silvio Colonna)
