CORSI E RICORSI DA AMNESIA COLLETTIVA
Nel mentre il Parlamento si accinge a varare il disegno di legge sul fine-vita, dopo l’inammissibilità del Referendum disposta dalla Consulta, assistiamo al levarsi di proteste incentrate sui casi limite dei cosiddetti stati vegetativi e di minima coscienza, che hanno immediatamente soppiantato gli appelli pubblici dei promotori referendari per l’ampliamento dell’eutanasia oltre i confini della Sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 2019. La Corte si era infatti già espressa riservando la possibilità dell’eutanasia alle “persone affette da una patologia irreversibile” fonte di sofferenze fisiche o psicologiche percepite come intollerabili e “tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale”. Insomma, per i casi limite c’è già una via tracciata per quanto ben regolamentata dal coinvolgimento dei comitati etici delle ASL, mentre il vero obiettivo era quello pubblicamente dichiarato sui mass media fino a metà febbraio con gli appelli ad aprire “finalmente” la porta dell’eutanasia ai malati di cancro, magari spingendosi in futuro ad includere anche quel “male di vivere” per eccellenza che è la depressione (o semplicemente la solitudine degli anziani delle nostre città-alveari, divenuti “non luoghi” senza comunità, dove chi si ferma è di peso). È sempre stato così dovunque: si parte dai casi eclatanti che servono da primo innesco per un percorso molto più ampio (eppure alla vicenda friulana di Eluana Englaro fanno da contrappeso i 22 anni trascorsi in coma nella casa paterna salentina da Emanuela Lia). Tutto questo nel silenzio assordante delle voci dell’altro fronte, almeno fino alla sentenza della Consulta, che ha configurato un inaudito “fatto nuovo” quanto ad assenza di dialettica e dibattito pubblico oramai monopolizzato dall’emergenza pandemica, cui è seguita la guerra in Ucraina.
PASSARE DAL DIRITTO AL DOVERE DI MORIRE?
Gli esempi internazionali rendono chiaro che una volta aperta la porta, la strada è spianata anche per altre casistiche: il re del Belgio ha firmato già quattro anni fa una legge che consente l’eutanasia di minorenni “consenzienti” (una contraddizione semantica), mentre Olanda e Danimarca iniziano a considerare sempre più realistico l’orizzonte di non garantire più cure mediche agli anziani “colpevoli” di non adottare corretti stili di vita perché finiscono col pesare sulle casse dello Stato. E pensare che l’indimenticato sovrano Baldovino abdicò per un giorno in quel di Bruxelles pur di non firmare una legge incompatibile col suo giudizio morale! Altri tempi: quelli in cui re Cristiano (si chiamava proprio così) di Danimarca girava per Copenaghen con la stella ebraica cucita sul braccio ben 40 anni prima che Giovanni Paolo II dichiarasse gli ebrei fratelli maggiori dei cristiani (dichiarazione storica ma secondo alcuni giunta fuori tempo massimo). L’esempio dei due bambini britannici a cui un Tribunale di sua Maestà ha ordinato di staccare la spina contro la volontà dei genitori perché i trattamenti non rispettavano i criteri di costo-efficacia definiti dal NICE (National Institute for Clinical Excellence), dimostra che ci vuole poco a passare dal diritto al DOVERE di morire.
Ho insegnato economia sanitaria per un decennio mettendo sempre in guardia i miei studenti dall’appiattirsi su logiche meramente economiche in tema di salute delle persone, giacché “il paziente più economico è sempre quello morto” (anche quando ha pagato le tasse per un’intera vita). Nei dibattiti a senso unico di questi giorni sull’eutanasia, è sempre presente l’introduzione (reclamata anche per l’Italia) della non punibilità dei medici, professione storicamente nata sul giuramento di Ippocrate (che faceva espresso divieto di procurare la morte di qualcuno) e che oggi ha necessariamente dovuto incorporare la sentenza della Consulta nel proprio codice deontologico, con la riserva dell’obiezione di coscienza, almeno per ora garantita (opzione che in diverse Regioni, Puglia inclusa, non viene però ormai più riconosciuta ad esempio alle guardie mediche notturne o festive in caso di richiesta della pillola abortiva RU486).
Ma la cosa che mi ha colpito è la coincidenza del gran rumore del fronte pro-eutanasia con la ricorrenza della Giornata della Memoria e di quella del Ricordo delle Foibe. Cosa c’entra la Memoria indelebile delle vittime dei totalitarismi di destra e sinistra del ventesimo secolo con la crescente ondata pro-eutanasia? La risposta è tutta in quel retroterra culturale di eugenetica ed etica utilitaristica post-darwiniana che preparò il programma Aktion4 nazista, volto a “concedere la morte per grazia ai malati considerati incurabili secondo l’umano giudizio”, le leggi sulla prevenzione delle malattie ereditarie (che portarono alla sterilizzazione di 400.000 cittadini tedeschi) e infine la barbarie della “soluzione finale”.
Ogni prassi è infatti sempre preceduta da un momento di teorizzazione di presupposti filosofici su cui viene basata. Insomma, il pensiero precede sempre l’azione (per dirla con il nostro Mazzini). Nel caso specifico, basterà ricordare due scienziati d’inizio novecento decisamente lontani dal nazismo (tanto che si dimisero dall’Università dopo la presa di potere da parte di Hitler). Si tratta di Karl Binding e Alfred Hoche, autori del testo dall’emblematico titolo “La liberalizzazione della soppressione della vita senza valore”, uscito in Germania nel 1920, punta dell’iceberg di una cultura di giustificazione dell’eutanasia intrisa di neodarwinismo eugenetista che godeva grande favore all’epoca dell’avvento del nazismo. Partendo da argomentazioni meramente scientifiche, i due studiosi spiegavano perché era lecito permettere la morte di “vite indegne di essere vissute”, come erano definite quelle delle persone gravemente malate, da “sottrarre al dolore”, così come i feti malati e i neonati malformati. Interessante notare che già allora si parlava di “morte caritatevole” (Gnadentod in tedesco), termine che si ritrova in molte legislazioni eutanasiche contemporanee.
Insomma, se si guarda alla storia, “l’impressione” è che l’accesso libero alla “dolce morte” non stia per dischiuderci i vasti orizzonti di nuove conquistate di libertà come propagandato con l’inevitabile superficialità della moderna comunicazione in pillole, ma possa invece addensare sulle nostre inconsapevoli teste un cupo cielo da romanzi di Tolkien (che scrisse il Signore degli Anelli proprio negli anni in cui l’Europa pativa le tenebre naziste). Tutto questo pur con le migliori intenzioni dei propugnatori radiotelevisivi dell’eutanasia allargata, dei quali gli italiani ignorano le specifiche qualifiche e preparazioni culturali del caso (a parte il numero di followers).
Ma è possibile che sia solo “un’impressione”? E’ con un una domanda e non con una risposta che intendo quindi concludere questa breve riflessione (meritevole di ben altri approfondimenti e dibattiti pubblici) perché ciascun lettore possa interrogarsi e formarsi un’opinione corretta, insieme all’invito a informarsi bene prima, vagliando attentamente le fonti. Viviamo infatti in tempi in cui il relativismo filosofico dominante ha oramai convinto noi tutti che non esista un’unica risposta (una verità oggettiva, come si sarebbe detto in altri tempi) ma siano possibili solo “opinioni” personali, ad alcune delle quali però non si riconosce la stessa dignità qualora contraddicano i supposti imperativi etici considerati “progressisti” e che finiscono paradossalmente con l’assurgere a nuovi incontestabili “dogmi”. Ed è sulla diffusione di questi moderni dogmi che si fondano grandi campagne per influenzare la cultura e modificare la sensibilità della nostra società (in gran parte riuscite).
Anche qui ci viene in soccorso la “memoria”, giacché in quel processo di Norimberga dove si processarono gli autori dei crimini nazisti non fu ammessa come giustificazione il fatto che stessero “solamente” eseguendo degli ordini. Il presupposto anche in questo caso “filosofico” su cui si poté condannarli (peraltro in piena contraddizione con l’odierno relativismo imperante) consisteva nel fatto che ciascuno degli imputati aveva la colpa di non essersi formato una “retta coscienza” (come dire che una verità esiste), pur abbracciando idee dominanti e maggioritarie nella cultura del loro Paese ma “oggettivamente” in contrasto coi principi fondamentali alla base del vivere umano. E’ stato quindi solo presupponendo l’esistenza di un riferimento etico oggettivo che fu possibile condannare quei criminali che “credevano” in quello che facevano, al pari della “maggioranza” dei loro mal-indottrinati concittadini. Insomma, non basta avere un’opinione: almeno su alcuni temi fondamentali la nostra opinione dev’essere ben formata e informata. Non sarà quindi il caso di approfondire per davvero il tema del fine-vita anziché ricorrere a semplificazioni basate su slogan ripetitivi? Naturalmente a ciascuno la propria (ben informata) risposta.
Dr. Prisco Piscitelli
Specialista in Igiene e Medicina Preventiva, ASL Lecce