UGUALI O DIFFERENTI DALLE STESSE PATOLOGIE NEL SOGGETTO NON ASSUNTORE?
Perchè coinvolgere un infettivologo in un congresso di cardiologi?
La tossicodipendenza per via endovenosa è strettamente correlata ad una maggiore incidenza di malattie infettive e, fra queste, le endocarditi infettive (EI) rappresentano l’evento associato a maggiore gravità e letalità. È infatti chiaramente documentata in letteratura una stretta associazione fra incidenza di EI e tasso di utilizzo di sostanze stupefacenti per via EV, così come è noto che un tossicodipendente per via EV ha una probabilità 100 volte maggiore rispetto alla popolazione generale di sviluppare EI.
L’endocardite del soggetto tossicodipendente è differente rispetto a quella del paziente non assuntore?
Solitamente le ID del soggetto tossicodipendente interessano soggetti più giovani, che presentano minori comorbidità (fatta eccezione per HIV, epatite o pregressa ID) e che quindi, per questo motivo, arrivano al ricovero in maniera meno acuta e meno grave. Altra nozione classicamente nota è che l’ID del tossicodipendente è prevalentemente localizzata al cuore di destra, ma è bene segnalare come questo paradigma vada pian piano modificandosi, a causa del progressivo invecchiamento della popolazione che fa uso di sostanze stupefacenti.
Cosa ci vuol dire? Può spiegarcelo meglio?
Voglio dire che oggi l’assuntore di sostanze stupefacenti è sempre meno spesso un paziente che proviene dal SERD o comunque dai margini della società; spesso si tratta invece di un professionista, magari ben inserito nel mondo del lavoro, che conserva purtroppo queste sue abitudini voluttuarie. Di conseguenza sta diventando sempre più frequente il riscontro di endocardite infettiva su valvola aortica o mitralica anche in soggetti tossicodipendenti ed in questi casi ci troviamo spesso di fronte a pazienti più anziani, che presentano già una valvulopatia degenerativa di base, su cui poi si impianta il processo infettivo favorito dalla tossicodipendenza. Diventa allora fondamentale cambiare l’atteggiamento di noi medici, perché di fronte a qualsiasi quadro infettivo a carattere settico, ma allargherei l’orizzonte anche a tantissime altre patologie cardiologiche, si deve sempre sospettare una genesi esotossica ed indagare con il dovuto rispetto da un punto di vista anamnestico, per favorire poi la migliore gestione clinica del caso.
Altra nozione classica dei libri di scuola è che l’endocardite infettiva del tossicodipendente sia gravata da minore letalità. È così?
Questo è vero, ma solo nel brevissimo periodo perché, come ho detto, questi pazienti sono solitamente più giovani ed hanno meno comorbidità di base, soprattutto cardiache, motivo per cui riescono quindi a superare meglio l’evento infettivo acuto. Nel lungo termine invece la sopravvivenza del paziente Tossicodipendente con endocardite infettiva è nettamente ridotta rispetto alla popolazione generale e ciò, nella stragrande maggioranza dei casi, è dovuto ad eventi correlati alla tossicodipendenza o alle ricadute infettive.
Questo ha dei chiari risvolti pratici.
Certamente si, il paziente tossicodipendente con endocardite infettiva dovrebbe essere infatti sin da subito, già durante il ricovero, preso in carico da un team multidisciplinare che preveda infettivologo, cardiologo, cardiochirurgo, ma anche e soprattutto il medico del SERD. Dobbiamo evitare atteggiamenti paternalistici e renderci conto invece che la dipendenza da droghe, come tutte le malattie croniche, ha bisogno di un approccio sistemico e rigoroso, da parte di personale specializzato, che sia in grado di ottimizzare al meglio il risultato finale di una stabile disassuefazione. Solo se riusciremo a rompere la spirale della tossicodipendenza potremmo dire di aver dato al nostro paziente una vera chance di sopravvivenza e non vedremo vanificato l’impegno profuso nella gestione dell’evento acuto.