Numero 4 – 2020
Scritto da Dr. Salvatore Sisinni Neuropsichiatra
RIFLESSIONI AL TEMPO DELLA PANDEMIA DA CORONAVIRUS
“Solo e pensoso i più deserti campi / vo’ misurando a passi tardi e lenti…”. Sono i primi versi di una memorabile lirica del Canzoniere di Francesco Petrarca.
I latini, in tema, avrebbero detto: De solitudine disputandum est (Della solitudine si sta discutendo); mentre io, cercando di esortare, in qualche modo, le persone a pensare (ragionare), cambiando il tempo del verbo da est in sit, direi: De solitudine disputandum sit (Della solitudine si discuta): non un dato di fatto, ma un’esortazione, un invito a parlarne.
Trattasi, infatti, di una condizione esistenziale molto importante, alla pari della sofferenza, della vita in sé e della stessa morte: grandi temi sui quali ci si confronta e, a volte, ci si scontra da sempre; senza, quindi, arrivare ad una conclusione che accontenti tutti.
È un tema, pertanto, sempre attuale. E lo è ancor di più oggi, quando, dall’emergenza sanitaria creata dal Coronavirus è stata imposta per legge, non per una settimana, bensì per oltre due lunghi e interminabili mesi.
Ognuno di noi l’ha vissuta in modo proprio: chi come un castigo, una condanna, una inaudita sofferenza e chi, invece, come (quasi) una liberazione da certi condizionamenti o compromessi sociali. E il dubbio – lo disse nel IV secolo a.C. il filosofo greco Aristotele – che l’uomo sia un animale sociale, vale a dire con vocazione naturale ad intraprendere e mantenere vivi i rapporti interpersonali con i propri simili. D’altra parte, c’è pure chi, ad una certa età – quella della ragione – sceglie di vivere in solitudine, in un luogo lontano dal mondo: ad esempio, le suore di clausura o i mistici; vale a dire quelli che, stanchi dei frastuoni e degli schiamazzi della vita moderna, si rifugiano nei cosiddetti eremi, dedicandosi alla preghiera o alla meditazione. La solitudine, poi, è stata immortalata da alcune canzoni. Ne cito solo una: Non esiste la solitudine cantata dalla brava e coinvolgente Ornella Vanoni:
Ah, l’amore, l’amore… / Quante parole ti fa dire l’amore! / Quanta vita, quante ore Regalate all’amore / Quante frasi dette al vento / Dedicate all’amore / Non esiste la solitudine / Non esiste la solitudine…
C’è, ancora, – ahinoi, sarebbe meglio se non ci fosse – un’altra solitudine che a volte, e a sorpresa da un giorno all’altro, ti coglie impreparato. Da alcuni viene vissuta male, come un castigo, una punizione; non viene accettata e, pertanto, perché non si trasformi in depressione – malattia vera e propria e, per giunta, mentale – bisogna ricorrere a dei compensi, scoprire degli antidoti che la contrastino, per quanto possibile. Sono dei posti in cui ci si rifugia, sentendosi, in qualche modo, protetti. C’è chi li trova dedicandosi agli altri, al prossimo del Vangelo, seguendo la via del volontariato sociale o privato, e ne riceve beneficio, dal momento che – nuova memoria evangelica – “c’è più gioia nel dare che nel ricevere”.
C’è, poi, chi si rifugia nella lettura o nella scrittura o in entrambe: due nobili attività della mente e dello spirito, che acquistano, in alcuni casi, valore davvero salvifico. E chi scrive lo sperimenta, giorno dopo giorno, da circa un anno. Vivere da solo, in una casa molto grande, pur essendo circondato da consolidati affetti familiari derivanti da una figlia, un genero, un figlio, una nuora e sei affezionati e adorati nipoti, veri, autentici gioielli, per dirla con la storica matrona romana Cornelia, madre felice dei due Gracchi. E, spesso, ancora chi scrive, soprattutto di notte, quando non riesce a prendere sonno, si alza, cammina, parla da solo, chiama e nessuno gli risponde; sorride guardando qualche foto incorniciata e posata su un mobile o sulla scrivania, ma quel sorriso non gli viene ricambiato.
Succede, come si è appena detto, per lo più di notte, quando il televisore è spento e le strade sulle quali s’affaccia la sua casa sono vuote di persone e di automezzi. Avvalendosi, quasi sempre, di un sottofondo musicale di brani scelti ad arte (non certo quelli dei cosiddetti urlatori di moda negli anni Sessanta – gli anni della sua giovinezza -; canzoni che pure vinsero qualche festival (e penso a Romantica di Tony Dallara e Come prima, più di prima, t’amerò interpretata dallo stesso Dallara).
Avviandomi alla conclusione, voglio dire che in questi giorni ho tra le mani un libro di Lou Marinoff, dal titolo molto eloquente: Platone è meglio del Prozac.
Per chi non lo sapesse, Il Prozac è uno psicofarmaco ad azione antidepressiva, che è stato definito – per promuoverne l’uso (strategia commerciale!) – “la pillola della felicità”. Fosse vero! Si è visto, poi, con l’uso, che tra le persone che l’avevano assunto, ovviamente dietro prescrizione medica, il tasso dei suicidi, percentualmente, era in qualche modo aumentato al confronto con altri farmaci aventi la stessa azione. Tanto da essere ribattezzato come “il farmaco del suicidio”.
Ma neanche questo è vero. È un assunto approssimativo. Infatti, gli esperi (psichiatri) sanno che quando agisce, cioè dopo qualche settimana dall’inizio della cura, eleva sensibilmente il tono fondamentale dell’umore, togliendogli i freni inibitori, spingendolo in qualche raro caso a compiere il gesto estremo (prima non ci riusciva, mancandogli la forza fisica e mentale per metterlo in atto). Per chiudere, si legge sul risvolto di copertina del sopracitato libro di Marinoff: “… la filosofia può aiutare a ritrovare il nostro benessere psicologico”.
Mi permetto di aggiungere che, pur riconoscendo la validità del ragionamento filosofico – nell’antichità molti medici erano anche filosofi – nel caso di una depressione-malattia, bisogna affidarsi con fiducia alle cure di un esperto, lo psichiatra, perché, per mestiere, cioè per competenza, è la persona più adatta, qualificata a sconfiggere il male oscuro di Giuseppe Berto e, in altre parole, a combattere, sino a sconfiggerlo, il cane nero di Roberto Gervaso, giornalista e scrittore recentemente scomparso, non però a causa della depressione, che – per sua stessa dichiarazione – nel corso della vita, più di una volta lo aveva morsicato pesantemente.
