NECESSARIA UNA ALTRETTANTO SOLIDA FORMAZIONE MANUALE E PRATICA
Tra i punti di forza del sistema formativo italiano citerei senz’altro l’accessibilità e la cura per la completezza della formazione. Nel nostro Paese si può avere accesso a una formazione di qualità senza rivolgersi necessariamente alle Università private, e pagando tasse universitarie accessibili a molte famiglie. La super-specializzazione viene inoltre offerta solo dopo un percorso formativo completo e che non trascura anche le discipline limitrofe al proprio campo di interesse.
Ritengo pertanto il nostro sistema formativo universitario altamente qualificante: sebbene conosca per esperienza personale solo il sistema inglese (ho trascorso 15 mesi nell’Università di Birmingham), conosco bene molti colleghi italiani e stranieri che si sono formati all’estero. Confrontandomi con loro e ascoltando le loro esperienze, anche in Atenei prestigiosi come le Università di Harvard, Yale, Oxford e Cambridge, non ho mai avvertito sostanziali debolezze culturali nella formazione dei medici e ricercatori italiani.
Credo però che questo non valga se consideriamo le discipline chirurgiche. Non sono un chirurgo ma non posso non notare che molti colleghi chirurghi formatisi in Italia avvertono l’esigenza di andare all’estero per completare la propria formazione. Insomma, alla eccellente formazione teorica non sempre corrisponde nel sistema italiano una altrettanto solida formazione manuale e pratica. L’idea di un corso di studi orientato in senso bio-ingegneristico va nella giusta direzione: quella di provare a ridurre la divaricazione tra sapere teorico e competenze pratiche che ancora affligge il nostro sistema formativo.
L’ Università ha comunque bisogno di collaborazioni con il sistema sanitario nazionale ed il mondo delle imprese. È fondamentale rivolgersi ad altri attori per la formazione dei medici di domani. Le Università devono necessariamente coinvolgere i medici del SSN, gli ospedali cittadini, gli IRCCS, l’industria farmaceutica e biotecnologica se vogliono riuscire nella competizione con gli Atenei stranieri.
L’INDIRIZZO BIO-INGEGNERISTICO NON DEVE PENALIZZARE L’ASPETTO UMANO
La Ricerca in Italia viene spesso considerata il nostro tallone d’ Achille. Alla domanda se lo sviluppo della ricerca potrà essere un elemento di particolare attrattività per i nostri “cervelli in fuga” la risposta non può che essere positiva. Dico una banalità ricordando che gli investimenti in ricerca sono destinati a ritornare nel Paese che li fa. La recente esperienza della pandemia da SARS-COV-2 ci ha mostrato peraltro che non è detto che si debba aspettare anni per vedere i risultati del lavoro che si svolge nei laboratori di ricerca. Sono ancora strabiliato per la rapidità con cui la scienza ha saputo rispondere al bisogno di cura e sicurezza che la pandemia ha creato a livello planetario.
E’ necessario anche fare attenzione perché l’indirizzo bio-ingegneristico previsto per la Facoltà di Medicina a Lecce non penalizzi la formazione del medico in tema di relazione, comunicazione, uso del linguaggio nella terapia. È innegabile che occuparsi solo del corpo-macchina potrebbe finire per penalizzare la relazione con l’uomo che soffre, relazione irriducibile alla pura biologia. Credo che questo sia un rischio da tenere ovviamente ben presente ma da cui potremo però difenderci.
All’estero stanno sorgendo insegnamenti di “Humanities” nelle Facoltà di Medicina e Chirurgia, proprio per scongiurare la degenerazione della relazione tra medico e paziente a quella che l’ingegnere ha con il motore che si rompe. Cosa si insegna in questi corsi di Scienze umane per medici? La mitologia greca, la letteratura, la poesia, l’arte. Cioè tutto quello che noi respiriamo quotidianamente nel nostro Paese e che studiamo nei licei.
La Facoltà di Medicina deve inoltre necessariamente un respiro internazionale attraverso reti di collaborazione con Istituti esteri importanti, scambi di docenti ricercatori e studenti. La scienza è per definizione universale e i suoi prodotti devono necessariamente superare i confini nazionali. Rispetto al passato, quando cioè la ricerca nelle nostre Università veniva finanziata prevalentemente attraverso bandi ministeriali nazionali, oggi sono soprattutto organismi sopranazionali e fondazioni internazionali che finanziano la ricerca di eccellenza.
Per poter sperare di accedere a queste fonti di finanziamento, è essenziale costituire delle reti di collaborazione con ricercatori di altri Paesi. Allo stesso modo, è altrettanto importante favorire la circolazione dei docenti e degli studenti tra diversi Atenei, anche attraverso la costituzione di percorsi formativi misti, che magari forniscono un titolo di Laurea o di Dottorato rilasciato simultaneamente da due Atenei partners. Esperienze del genere sono già in corso e sono destinate a rafforzarsi.
Da Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca metterei in agenda l’abolizione, almeno per qualche anno, del numero chiuso in Medicina e, da Ministro della Salute, mi preoccuperei di proporre un aumento consistente degli stipendi del personale medico e infermieristico nel pubblico e nel privato.

Diego Centonze, specialista in Neurologia e in Psichiatria, è Professore Ordinario di Neurologia presso l’Università di Roma Tor Vergata e Direttore dell’UOC di Neurologia e della UOC di Stroke Unit presso l’IRCCS Neuromed, a Pozzilli (Isernia). In virtù di un accordo interuniversitario, ricopre il ruolo di Preside della Facoltà di Psicologia presso l’Università Telematica Internazionale Uninettuno (UTIU).
Ha conseguito il dottorato di ricerca in Neuroriabilitazione e l’abilitazione all’esercizio della psicoterapia. È coordinatore del Dottorato di ricerca in Neuroscienze e responsabile del Master di II livello in Neuropsicoimmunologia sperimentale e clinica dell’Università Tor Vergata. È inoltre Co-direttore della Scuola di Specializzazione per medici e psicologi in Psicoterapia Psicoanalitica Psicomed a Pozzilli (Isernia), etc. etc.