Numero 4 – 2020
Scritto dalla Dr. Alba Rosa Pati – Medico Neurologo. Villa Verde Lecce
UN RAPPORTO QUOTIDIANO FATTO DI IMPEGNO, DI SPERANZE, DI DELUSIONI
SOMMARI:
IL RUOLO DEL MEDICO E QUELLO DEI FAMILIARI
STIMOLI TECNICI O EMOTIVI NELL’ATTESA DI UN “SEGNO”
Morire, dormire… nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine
al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne: è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire, dormire. Dormire, forse sognare.
WILLIAM SHAKESPEARE, Amleto (atto terzo, scena prima)
Coma: uno stato prolungato di incoscienza
Un paziente in coma è per definizione non contattabile. Non è consapevole di sé e dell’ambiente circostante. O perlomeno è quello che supponiamo. Si presenta collegato a numerosi “fili”, intubato o tracheostomizzato, collegato ad un ventilatore meccanico, nutrito da sondini o peg, monitorato da schermi che segnano la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca e respiratoria, la saturazione dell’ossigeno. Provvisto di catetere vescicale e idratato per via endovenosa. Circondato da numerose figure sanitarie e non, che continuamente si occupano di lui. Un quadretto che, a chi non è del mestiere, capita spesso di vedere in tv. Trasmissioni televisive che intervistano pazienti precedentemente in stato di coma e poi risvegliatisi. Esperienze al limite del credibile, di cui in fondo sappiamo ben poco.
Non sappiamo cosa effettivamente possa provare un paziente in coma, ma possiamo constatare che, talvolta, la voce di un familiare può fare aumentare la frequenza cardiaca, uno stimolo doloroso può far aprire gli occhi o far deviare il capo. Sudorazione profusa, reazioni vegetative le chiamiamo. Questo a noi non basta per definire uno stato di coscienza e di consapevolezza. Allora ci affidiamo agli esami strumentali, i potenziali evocati, l’elettroencefalogramma. Cerchiamo “una risposta elettrica”, un ritmo di fondo, la conduzione di una risposta motoria o sensitiva dal cervello alla periferia e viceversa. In genere si trovano risposte con una latenza aumentata, rallentata. Nei casi peggiori non si evoca alcuna risposta.
Aggiungiamo in terapia “farmaci attivanti”. Cerchiamo delle risposte obiettive e “ripetibili”. Questo è quello che “viviamo” noi medici al letto del paziente. Tutt’altra faccenda è quello che vivono i familiari, ora più che mai costretti “alle distanze”, fisiche e temporali. Visite limitate a pochi minuti, a pochi giorni a settimana. Mascherine che filtrano le emozioni. Camici sterili e guanti che impediscono il contatto. Un contatto già di per sé unilaterale e labile, a volte “pericoloso”, perché il paziente in coma è un paziente fragile, che va protetto da potenziali aggressori, di cui noi stessi possiamo essere il veicolo.
Ma cosa “vive” il paziente in coma? Già sul concetto di “vivere” ognuno di noi potrebbe avere pareri discordanti. Sarebbe il caso di chiedersi se è effettivamente “vivere” la condizione che è stata descritta sopra e che ognuno ha ben chiara negli occhi. Non siamo noi medici e sanitari sicuramente a poter decidere se ci sono dei limiti a questo. Noi “assistiamo” e cerchiamo di prolungare l’“esistenza” di questi pazienti e qualche volta la coscienza si superficializza, allora si parla di “stato alterato della coscienza”, diventano contattabili, rispondono ad uno stimolo esterno, eseguono un comando. In genere ci stringono la mano, non sempre per un riflesso automatico. È quel contatto che a volte ci basta per capire che non è più coma. È quello un segno che tanto attende una madre, un figlio, un congiunto. Noi sanitari riusciamo a tenere il distacco, qualche volta. Sicuramente non all’inizio della nostra carriera. Ricordo personalmente il giorno in cui ho “visitato” la terapia intensiva della Casa di Cura dove ora lavoro: mi sembrava che quei pazienti fossero “destinati” a questo stato di limbo a tempo indefinito. Per fortuna non è sempre così. Qualche volta abbiamo visto pazienti tornare a casa sulle proprie gambe. E questa è sicuramente la gratificazione più grande per un medico.
Un paziente in coma “vive”, indubbiamente; vive una dimensione spazio-temporale alterata, così me lo immagino. Molto ristretto lo spazio, quello di un letto in una stanza. Molto dilatato il tempo, sempre uguale a sé stesso, minuti che si ripetono sempre uguali. Un tempo che nessuno di noi può sapere quando e se finirà. Sogna? Percepisce il dolore? Si accorge di noi? Potremmo porre tante domande. Purtroppo non abbiamo altrettante risposte. Lo stimolo doloroso è il primo stimolo che applichiamo per cercare un contatto, che talvolta c’è; le risposte possono essere più o meno finalistiche. Poi tante attese, tante aspettative, a volte deluse. Quel tempo dilatato a volte ricomincia e le lancette riprendono a girare nel giusto verso. Altre volte restano ferme. Il vissuto del paziente in coma è anche il vissuto di chi ogni giorno “si occupa” di lui. Un vissuto fatto di ansie, preoccupazioni, preghiere.
