FONDAMENTALE CONTRIBUTO TECNICO AL LAVORO DI EQUIPE
Per ben comprendere qual è il lavoro dello psicologo in cure palliative, non si può prescindere da due punti: 1) la normativa nazionale che contestualizza l’agire dello psicologo; 2) l’osservazione delle modalità operative descritte nella letteratura nazionale ed internazionale.
Le cure palliative si propongono come processo terapeutico che tiene conto non solo del controllo dei sintomi, ma, soprattutto, la difesa e il recupero della migliore qualità di vita possibile, attuando interventi terapeutici mirati a coinvolgere anche la sfera psicologica, sociale e spirituale.
Lo psicologo che lavora in cure palliative:
– è in grado di effettuare la valutazione psicologica delle persone malate e del contesto affettivo relazionale di riferimento sapendo raccogliere, utilizzare, interpretare, documentare, integrare e restituire correttamente i dati raccolti nell’ambito della valutazione multidisciplinare e multiprofessionale dell’èquipe;
– riconosce l’opportunità di un intervento psicologico di supporto e/o di psicoterapia rivolto alla persona malata e/o alla famiglia e condivide la proposta nell’ambito dell’èquipe di cure palliative;
– attua un costante monitoraggio del clima lavorativo nell’èquipe attraverso strumenti e tecniche idonee ai vari setting assistenziali;
– conosce gli elementi cardine del lavoro di rete e le strutture che la compongono nella realtà nazionale ed applicata alla realtà locale;
– si confronta sulle questioni etiche, giuridiche, di biodiritto e deontologiche con l’èquipe;
– interviene nei percorsi formativi di professionisti e volontari attivi a vari livelli e nei diversi setting assistenziali delle cure palliative;
– comprendel’importanza e la necessità di impostare e sviluppare progetti di ricerca e studi clinici.
Lo psicologo ha competenze specifiche e abilità relazionali e dà un contributo tecnico all’èquipe;
La specificità disciplinare delle cure palliative è determinata dalla capacità di dar voce al bisogno della persona malata rispettandone I valori e le volontà nell’ambito della relazione d’aiuto malato-èquipe.
La dimensione relazionale in cure palliative prevalentemente spetta allo psicologo e viene accettata e condivisa da tutto il personale, perchè l’intervento si inserisce in una prospettiva umanizzante.
La specificità dello psicologo nel contesto delle cure palliative è di essere attento alla dimensione incoscia della psiche in particolare:
– con i pazienti ai quali la sofferenza psichica, il conflitto, la crisi, impedirebbero la relazione del soggetto con se stesso e con il mondo circostante;
– per aiutare il personale ad andare oltre il buon senso.
L’approsimarsi del fine vita è spesso vissuto come una crisi che interessa sia l’individuo e sia il suo ambiente. Queste crisi non sono mai prive di conseguenze, sia a livello comportamentale sia a livello delle configurazioni psichiche (fantasmi, angosce) che le accompagnano.
La psicologia clinica aiuta ad esaminare ciò che accade in determinati momenti, identificando le componenti psichiche e sociali e intervenendo se necessario per permettere il processo di maturazione e di crescita. La psicologia clinica consente una chiarificazione nella comprenzione globale delle situazioni e dare un senso. All’evento morte è possibile prepararsi come nel caso delle fasi terminali delle malattie. E’ una vera e propria crisi con conflitti tensioni contraddizioni e costringe a fare cambiamenti ed invita ad una traformazione.
LE MODALITÀ OPERATIVE DELLO PSICOLOGO IN CURE PALLIATIVE: LETTERATURA NAZIONALE E INTERNAZIONALE
Le cure palliative universalmente fanno riferimento ad un modello interdisciplinare e multidisciplinare dove lo psicologo è considerato parte integrante dell’equipe di cura e per questo è tenuto a lavorare in maniera integrata con gli altri professionisti. La figura dello psicologo all’interno dell’equipe è di recente introduzione. Storicamente il sostegno psicologico è stato affidato all’equipe, ma il ruolo che l’equipe può svolgere è ben diverso da quello che è il compito di un professionista della salute mentale Haley e al., hanno identificato le aree di intervento dello psicologo, in tempi specifici del percorso di malattia, da prima che insorga, alla fase di elaborazione del lutto.
Gli aspetti e i contenuti individuati in questo articolo, sono in linea con quanto riportato dal Core curriculum dello psicologo in cure palliative edito dalla SICP (2013).
Possono derivare dal lavoro in ambito psico-oncologico ed essere applicate alle fasi avanzate, qualora lavori in continuità assistenziale dall’ospedale al territorio; II) gli psicologi che lavorano in un campo dove viene utilizzato l’approccio palliativo; III) competenze acquisite attraverso training specifici che applicano protocolli di intervento sia sul singolo che sui gruppi a seconda delle diverse fasi di malattia e che sono proprie degli psicologi che fanno parte di equipe di cure palliative.
Sono stati individuati 6 principi:
- Principi di cure palliative
- Comunicazione
- Ottimizzazione del comfort e della qualità della vita.
- Pianificazione dell’assistenza e pratica collaborativa
- Perdita, dolore e lutto
- Pratica professionale ed etica nel contesto delle cure palliative.
Il core dello psicologo è organizzato e strutturato in 3 livelli:
- Livello base: comprende le competenze che deve acquisire uno psicologo per poter comprendere il significato della malattia nella storia personale del malato in fase terminale e della sua famiglia; individuare, accogliere, contenere e restituire i bisogni e rapportarsi con i servizi di cure palliative.
- Livello specialistico: comprende le competenze che deve possedere lo psicologo che dedica in modo continuativo e/o esclusivo la propria attività nelle cure palliative all’interno di una équipe multidisciplinare.
- Livello di coordinamento/direzione: comprende le competenze specifiche possedere lo psicologo con attività di coordinamento.
L’intervento dello psicologo in cure palliative segue un continuum che va da competenze di base a competenze specialistiche a seconda del setting lavorativo, del ruolo, delle risorse e del tempo dedicato.
Quando parliamo di cure palliative oggi, dobbiamo pensare a cure che hanno come utenza pazienti con cronicità complessa in un percorso che va dalle cure simultanee all’end stage. Rispetto alla traiettoria di malattia, sono stati proposti alcuni modelli di intervento, in particolare in riferimento ai tempi di intervento, alla loro specificità e quindi alle competenze richieste, ai ruoli professionali che devono erogare le cure palliative. I ricercatori hanno adattato la Teoria dei Sistemi Ecologici di Bronfenbrenner, classificando i risultati in (persona, bisogni e caratteristiche), cronosistema (influenze dinamiche del tempo), mesosistema (interazioni con la famiglia e operatori sanitari), esosistema (cure palliative e servizi/sistemi) e macrosistema (influenze sociali).
La complessità dei bisogni di cure palliative può essere valutata e compresa già al livello della singola persona/paziente, indagando le sue caratteristiche personali, le risorse (resilienza, coping, vulnerabilità, dipendenza), la rete sociale, integrando le informazioni sugli altri sistemi più allargati (servizi, risorse di cura …).
Alla luce di questa complessità che dalla dinamicità della malattia rimanda alle caratteristiche personali e uniche di ciascun paziente e del sistema famiglia, diviene indispensabile capire come la figura dello psicologo entra nell’assistenza e quali sono i compiti a lui affidati. La figura dello psicologo è parte integrante dell’equipe e i cui interventi sono maggiormente dedicati al paziente e alla famiglia.
Quando una persona malata entra in hospice può essere presa in carico per tre motivazioni, tutte relative al pattern di collegamento che lo psicologo deve osservare. Il motivo del ricovero del paziente del suo sistema di appartenenza e quindi fondamentale una presa in carico psicologica dell’équipe formata ha l’opportunità di attivare la figura dello psicologo quando lo ritenga necessario, avendo ben chiaro che non tutte le situazioni di terminalità esitano in criticità. Molto spesso le persone malate e le famiglie hanno delle risorse che consentono di vivere la morte come parte integrante della vita e sanno affrontare i cambiamenti in maniera autonoma ed efficace. I momenti di discussione con l’equipe posso essere maggiori, in quanto lo psicologo ha la possibilità di assistere al passaggio delle informazioni tra colleghi che avviene durante il cambio turno, o durante i briefing oltre che durante le riunioni d’équipe. Il contesto di cura rende sicuramente più fluidi gli scambi con l’équipe, ma anche l’osservazione diretta da parte dello psicologo delle dinamiche intrafamiliari e di quelle interne all’equipe, oltre che tra questi due sistemi.
Quando parliamo di buone pratiche psicologiche dobbiamo stabilire il tempo e la fase di malattia in cui vengono proposte le cure palliative. Le buone pratiche si discostano dalle “conoscenze e competenze”, in quanto sono ciò che si realizza avendo maturato buone conoscenze e sviluppato buone competenze. Le cure palliative devono iniziare in un tempo precoce e non solo negli ultimi giorni di vita: questo rappresenta un modello organizzativo, in cui la variabile tempo determina dei significati che per uno psicologo sono imprescindibili, così come definisce un contesto di cura che può variare da struttura a struttura. Le cure palliative devono essere modulate rispetto alla tipologia di malattia con al centro i bisogni della persona malata e della famiglia, senza perderne la specificità. I palliativisti devono lavorare in sinergia con gli altri specialisti, coerentemente con le traiettorie di malattia di cui sono portatrici le persone malate, in un continuum che va dalle terapie attive alle terapie palliative. Come le ricerche nazionali ed internazionali suggeriscono, si differenziano le buone pratiche in due livelli: livello base e livello specialistico. Per livello base intendiamo quelle pratiche che devono saper svolgere gli psicologi che possono venire a contatto con pazienti che ricevono una diagnosi infausta e i loro familiari in qualunque setting lavorino. Per livello specialistico intendiamo quelle pratiche che gli psicoterapeuti, devono saper svolgere dopo un training specifico in cure palliative, lavorando in equipe interdisciplinari e multidisciplinari che si occupano di persone malate con diagnosi di inguaribilità e delle loro famiglie, in interscambio continuo con le equipe. Ciò che caratterizza e contraddistingue lo psicoterapeuta specialista in cure palliative è l’appartenenza all’équipe di cura, appartenenza che determina l’acquisizione di determinate competenze e la modalità di lavoro che altrimenti non sarebbe né possibile, né efficace.
Le Buone Pratiche di base e specialistiche dello Psicologo in cure palliative, lavora con i seguenti destinatari:
- Persona malata
- Famiglia
- Équipe
Su differenti piani:
a.area delle funzioni;
area del sé;
area delle relazioni;
area informative.
- Intervento
- Valutazione degli esiti.
Naturalmente sia con la persona malata che con l’equipe prevede l’analisi delle informazioni pregresse, pervenute dall’osservazione dell’inviante nelle 4 aree individuate.
IL LUTTO.
Nell’esperienza del tempo del lutto:
1) la presenza di un “evento perdita” dato dalla morte di una persona cara;
2) le “risonanze” soggettive legate all’evento;
3) gli aspetti socio-culturali che intervengono modulando le caratteristiche e gli esiti dell’esperienza stessa.
Le riflessioni psicologiche sulla perdita di una persona cara hanno caratterizzato diverse prospettive teoriche con l’obiettivo di comprendere la condizione dell’essere in lutto e allo stesso tempo il lavoro necessario nel tempo del lutto.
Nel 1915 Freud in “Lutto e Melanconia” iniziava ad interrogarsi sul lutto come reazione normale alla perdita di una persona cara sperimentando un profondo e doloroso stato di sconforto da non confondere con la melanconia (oggi definita depressione).
Freud identifica altre reazioni nel lutto in assonanza con lo stato depressivo come: la perdita d’interesse per il mondo esterno, la perdita della capacità di amare e l’inibizione a qualsiasi attività che non si ponga in rapporto con la memoria del defunto. La persona è in lutto sia per la perdita dell’oggetto d’amore (la persona amata), sia perché la perdita dell’altro si riflette in una perdita che riguarda il suo Io.
La perdita dell’“oggetto” amato determina un processo, definito “lavoro del lutto”, attraverso il quale l’energia psichica precedentemente investita sull’oggetto viene gradualmente ritirata verso l’Io (temporanea regressione narcisistica). Il lavoro del lutto termina quando il soggetto trasforma l’assenza esterna dell’oggetto in presenza interna ed è pronto a reinvestire la sua energia libidica verso nuovi oggetti.
Klein, riflette sull’impatto psicologico della perdita di un oggetto significativo e ipotizza che la condizione del lutto implichi la temporanea regressione alla posizione depressiva che ha le sue radici nello sviluppo infantile: “Io sostengo che il bambino attraversa stati psichici equivalenti al lutto degli adulti o, più precisamente, che ogni volta che più tardi si prova tale cordoglio si rivive il lutto infantile”. Il bambino nello svezzamento sperimenta la posizione depressiva provando tristezza e sensi di colpa data dalla separazione dal seno materno oggetto d’amore, sicurezza e piacere. In questa esperienza il mondo interno del bambino crolla come nell’adulto che perde e si separa definitivamente da una figura significativa. Per Klein il lavoro nel lutto coincide con la ricostruzione del proprio mondo interno possibile solo se il soggetto è stato capace nell’infanzia di consolidare il rapporto con i propri oggetti buoni. Bowlby, nel libro “Attaccamento e Perdita” riflette sulle possibili conseguenze psicopatologiche del lutto in caso di eventuali blocchi evolutivi e regressioni dopo la perdita di un legame affettivo significativo. Per Bowlby il lutto è assimilabile all’ansia di separazione che sperimenta il bambino con la mamma. In particolare, approfondisce il percorso di adattamento alla perdita attraverso quattro fasi:
- Fase di shock o stordimento: la persona tende a rifiutare, negare l’evento mor te che risulterebbe eccessivamente doloroso, inaccettabile e incomprensibile. Emozioni prevalenti: Disperazione e incredulità.
- Fase del desiderio e della ricerca: la persona tende a cercare la persona scomparsa o ad attenderla come se potesse tornare. Emozioni prevalenti: Rabbia rivolta a sé, all’esterno o nello specifico familiari, medici o quanti provino a proporre un intervento di conforto e sostegno.
- Fase di disorganizzazione e disperazione: la persona tende a non dormire e/o magiare regolarmente. In questa fase tende all’isolamento evitando le relazioni sociali. In questa fase la persona inizia a comprendere che la persona cara non tornerà più. Emozioni prevalenti: solitudine, depressione, perdita d’interesse verso di sé e gli altri.
- Fase della riorganizzazione: la persona inizia a riorganizzare la propria vita. L’emozioni negative iniziano a ridursi. Kübler Ross, attraverso la sua esperienza con malati oncologici nella fase terminale (“La morte amica”) ha elaborato un ulteriore modello di fasi di reazione dei pazienti alla comunicazione di una diagnosi con prognosi infausta (schok; rabbia; depressione; patteggiamento e accettazione). Nel tempo questo modello è stato utilizzato anche nel lavoro del lutto. Dopo la morte della persona cara per la famiglia inizia il tempo del lutto un processo non lineare ma “a singhiozzo” o per “alti e bassi”, un periodo oscillante fra momenti di maggiore consapevolezza, momenti di diniego o rimozione circa la dolorosa realtà della perdita. Infatti, il tempo del lutto rappresenta una transizione critica per tutto il nucleo familiare, un punto di non ritorno, un cambiamento profondo dell’identità personale di ogni membro e dell’identità famigliare stessa. Per far fronte al dolore della perdita una prima sfida è la condivisione della sofferenza, ognuno con la propria modalità facendo i conti con l’ambivalenza dei sentimenti che da sempre accompagna i legami più significativi della vita. Pertanto, il lutto come processo normale viene ritenuto un tempo necessario per manifestare il dolore della perdita, dove ogni individuo che ne fa esperienza affronta un tempo di sofferenza caratterizzato da reazioni soggettive e dipendenti da “costrutti, aspettative e motivazioni proprie del mondo interno dell’individuo”, nonché dalla personalità e dalla storia di vita, dal contesto sociale, culturale e dalla rilevanza simbolica della Perdita.
Il Gruppo Geode22 ha delineato una fenomenologia specifica del lutto in cure palliative come lutto normale, critico e patologico.
Il lutto normale corrisponde ad un processo normale, fisiologico, di adattamento alla perdita, alle nuove narrazioni di sé e della propria storia personale e relazionale. Si definisce lutto critico quel soffrire nel tempo del lutto che, a motivo della ridefinizione della posizione relazionale, si manifesta persistente e con una intensità tale da richiedere un intervento psicologico. Nei contesti delle cure palliative è meno frequente la diagnosi di lutto patologico. Lo psicologo in cure palliative fa diagnosi di lutto patologico o complicate. Il Gruppo Geode ha individuato alcuni criteri che possono essere alla base di questo tipo di lutto già durante il tempo dell’assistenza: disagio psicologico clinicamente significativo; il tempo del lutto come fattore trigger per l’emergere di una psicopatologia; presenza di una psicopatologia pregressa. In cure palliative lo psicologo interviene in prevenzione del lutto critico e quello che potrà poi essere diagnosticato come lutto persistente complicato attivando dal tempo dell’assistenza un supporto mirato al lutto nel tempo dell’assistenza prima che la morte avvenga.
Dott.ssa Giovanna Fersini
Psicologa/psicoterapeuta
Formazione in Psiconcologia e Cure Palliative