Skip to content Skip to sidebar Skip to footer
FOCUS_DR_ALBAN_BELTOIA_IMG

L’esperienza nella prima zona rossa di un collega che aveva lavorato a tricase

 

Alban Bertoia è un valoroso medico anestesista – rianimatore, albanese di origine, con il quale ho avuto l’opportunità di collaborare per un certo periodo di tempo, circa 12-14 anni fa, presso l’Ospedale di Tricase. Trasferitosi a Lodi, si è trovato a dover affrontare le conseguenze terribili della pandemia Covid-19 nel territorio più duramente colpito. Da questo breve racconto traspare la drammaticità di quanto ha visto e toccato con mano nei giorni più bui per il nostro Paese.

Silvio Colonna

Il giorno 20 febbraio eravamo nel blocco operatorio per la seduta ordinaria e ho visto il mio collega rianimatore che stava poco bene. Infatti, mi ha confermato che aveva la febbre e si sentiva a pezzi. Ma nonostante questo, si era presentato in servizio lo stesso. Dopo averlo “sgridato” per essere venuto lo stesso a lavorare (ma come si fa a impedire lo svolgimento dell’attività operatoria quando il numero degli anestesisti da tanto tempo è esiguo?), ho pensato che potesse avere i segni di un’influenza H1N1 e scherzando gli ho anche detto che era impossibile che avesse Covid-19. Tra l’altro non presentava tosse. E poi proprio da noi doveva presentarsi il primo caso Italiano?

IL 20 FEBBRAIO, UN GIORNO IMPOSSIBILE DA DIMENTICARE

A fine giornata arriva la notizia che forse il primo caso di polmonite da Covid era ricoverato nella nostra Terapia Intensiva di Codogno. Un giovane, sportivo e in buona salute, era ricoverato per insufficienza respiratoria da polmonite interstiziale, proveniente dalla Medicina e non rispondeva alle cure standardizzate. La collega internista che l’aveva in cura da due giorni, avendo saputo della cena avuta con un collega tornato da poco dalla Cina, ha riferito alla nostra collega di guardia in Rianimazione questa informazione. La dott.ssa Malara decide così di chiedere l’esecuzione del tampone alla ricerca di Covid-19 in “palese violazione” del protocollo Covid. La conferma arriva durante la notte insieme ad un numero crescente di malati che si presentano nel Pronto Soccorso di Codogno con febbre alta, tosse e alcuni con difficoltà respiratoria.

Le ore successive furono convulse. Vi fu un secondo ricovero in Terapia Intensiva sempre per polmonite interstiziale con ipossiemia refrattaria ai trattamenti. In seguito è stata decisa la chiusura del Pronto Soccorso per contatto ravvicinato del personale con i casi ormai confermati di Covid e i pazienti trasferiti nel Pronto Soccorso di Lodi. In seguito, dopo il trasferimento del primo malato a Pavia, fu decisa la chiusura della Rianimazione di Codogno.

Da quel momento e per un numero interminabile di giorni le sirene delle ambulanze si sentivano in tutte le ore. Ricordo la fila lunghissima al di fuori del PS in attesa di consegnare i malati trasportati. Si presentavano tutti con febbre, tosse, insufficienza respiratoria e quasi tutti provenienti dalla famosa “zona rossa”: tanti pazienti da una zona ristretta con poche decine di migliaia di abitanti. E il Pronto Soccorso, come eravamo abituati a conoscerlo, non esisteva più. Una lunga fila di barelle, sulle quali erano collocati i pazienti di tutte le età, occupava lo spazio dove si trovavano le sedie dell’area triage. Presto il contagio è arrivato anche nelle altre zone del Lodigiano. E nei primi settanta giorni dell’emergenza circa 3000 pazienti sono passati dal PS e di questi quasi 100 sono stati ricoverati in Terapia Intensiva.

CRONACA DI UNA GUERRA INASPETTATA

La TIS di Lodi comprendeva sette posti rianimatori e altri sei di trattamento subintensivo per varie specialità. Era chiaro che tutto ciò non bastava per fare fronte al numero dei pazienti che necessitavano di supporto intensivo. Inoltre, alcuni colleghi rianimatori si erano ormai ammalati e altri si trovavano in isolamento perché risultati positivi al tampone. Dei 24 medici del servizio Anestesia e Rianimazione, si sono ammalati in 8. E la situazione si presentava analoga anche con gli infermieri dell’area intensiva. In queste condizioni, un aiuto prezioso è arrivato dai colleghi rianimatori degli ospedali milanesi e dell’esercito. Dopo aver occupato tutti i letti con pazienti intubati, è iniziata la trasformazione del blocco operatorio di day-surgery (che si trova di fronte alla Terapia Intensiva) in una nuova rianimazione battezzata La Piccola TIS. Alla fine la Rianimazione è arrivata a 25 posti letto con pazienti ventilati.

In contemporanea è avvenuta la trasformazione di quasi tutto l’ospedale in ospedale Covid. Non esisteva più il reparto di chirurgia generale e le specialistiche, di medicina, di nefrologia, di ortopedia; erano trasformati nelle varie aree denominate gialla, arancione e blu in base alla gravità del quadro clinico e delle necessità di trattamento. E i colleghi che fino a un giorno prima si occupavano di tutt’altro, si sono trovati nella condizione di curare una malattia nuova. Bisognava dare loro tutto il nostro supporto per prepararli in fretta alla nuova sfida. E la ventilazione non-invasiva era una di queste. Bisognava procedere con cautela, cercando di dare il supporto necessario al paziente per evitare o al massimo ritardare l’ingresso in terapia intensiva. L’utilizzo dell’ecografo è risultato di fondamentale importanza nella diagnosi e nella valutazione progressiva del quadro clinico.

In questa situazione per me è arrivata la chiamata dal primario delle Malattie Infettive per dare il mio supporto e contributo al reparto. I colleghi infettivologi erano presi anche con la stesura dei protocolli terapeutici, in continua evoluzione, in un reparto che si trova in un’altra sede dell’ASST di Lodi (S. Angelo Lodigiano, a 15 Km. da LodI). Un’esperienza bellissima per me (e per il mio collega anestesista Luca Mugnaga) che mi ha permesso di compiere un salto indietro nel tempo cercando di mettere a frutto la mia pregressa esperienza da internista. Anche lì arrivavano pazienti con insufficienza respiratoria, inizialmente definita lieve.

Insieme ai colleghi pneumologi si valutava ogni caso clinico con attenzione maggiore verso i segni clinici che preannunciavano il peggioramento del quadro clinico e si mettevano in atto le strategie di ventilazione non-invasiva. La lontananza da Lodi rendeva necessaria una sorveglianza accurata e protratta nel tempo durante la giornata. Il peggioramento quando arrivava, si presentava repentino e il trasferimento tempestivo verso i reparti per proseguire con “up-grade terapeutico”, diventava una vera sfida. Con i pazienti avevamo il contatto visivo attraverso la visiera e loro ci riconoscevano attraverso la voce. A volte, scherzando, dicevo a loro che un modo sicuro per riconoscerci dopo nella vita reale era quello di osservare nelle persone i segni lasciati dalla maschera FFP, soprattutto sul naso.

Molte volte mi hanno chiesto se avevo paura ad andare a lavorare all’ospedale. Ho sempre risposto che non avevo paura per me stesso. Ho eseguito sempre le procedure di sicurezza con una cura maniacale. La paura, o meglio dire la preoccupazione, era quello di essere la fonte di contagio per i miei familiari. E poi nessuno di noi, anche i più anziani, si era trovato prima in una situazione simile.

Adesso la situazione sta migliorando lentamente, i reparti Covid si sono praticamente svuotati, in TIS gli ultimi pazienti sono in via di guarigione e ci sono i primi timidi segnali di ripresa della vita normale ospedaliera. Sono tornato nella mia attività principale in anestesia, con ritmi diversi dettati dalle nuove norme di prudenza, con la speranza di un rapido ritorno nella normalità. Che sarà, sono convinto, una normalità diversa da prima.

 

 

FOCUS_DR_ALBAN BELTOIA
Dr. Beltoia Alban Anestesista Rianimatore – Ospedale LODI
Show CommentsClose Comments

Leave a comment