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Caro Silvio,

La triste vicenda del Covid ha messo alla prova la nostra capacità di reazione di fronte a problemi inattesi non solo strettamente medici quali la condotta terapeutica, ma anche generali, di metodo.

Non si allude, infatti, a eventuali errori, a casi singoli, a ricerca e condanna di colpevoli, quanto ad un mutamento di “filosofia medica” rispetto alla tradizione. In sintesi, si ha il sospetto che in questa triste vicenda vi sia stata una Grande Assente: la Clinica. Intendiamo per Clinica la valutazione della Persona (cioè del Paziente) nella sua interezza e, soprattutto la Interdisciplinarietà tra varie competenze (Pneumologia,Terapia della shock, Immunologia, Virologia, Epidemiologia, Igiene…). Ciò ha avuto conseguenze deleterie su aspetti assai pratici:

1) ritardo della diagnosi (dato che non si è inquadrata la necessità che il paziente andasse visitato subito e controllato regolarmente)

2) ritardo della terapia, dato che la anatomia patologica e la ipossiemia dovevano far pensare ad un danno della membrana alveolo capillare, per compromissione dell’interstizio ed impedito passaggio di O2. 

3) ritardo della comprensione della responsabilità di reazioni infiammatorie autoimmuni, meccanismo all’origine della fibrosi polmonare.

4) non si è riflettuto che l’intervento della Rianimazione Respiratoria (CPAP e Ventilazione Meccanica previa Intubazione) arrivava su un danno ormai definitivo (a fibrosi polmonare iniziata) difficile da far regredire. Come dire che ormai i muratori (il Virus) avevano eretto il muro (alveolo capillare) e magari se ne erano pure andati via e il malato sarebbe morto anche in loro assenza. 

Egualmente dicasi delle microtrombosi capillari, collasso degli alveoli, insufficienza cardiaca (ventricolare destra), grave disturbo della ventilazione/perfusione (con ipossiemia non correggibile da somministrazione di O2). In sostanza, ben venga la terapia antivirale, ma la Medicina d’Urgenza imponeva un intervento che potremmo definire “sintomatico”, che di fatto sarebbe stato essenziale.

Ripeto: la mia incompetenza mi vieta di sindacare o correggere le terapie attuate, però dovrebbe essere alla portata di tutti, date queste premesse, che una terapia antiinfiammatoria precoce, un’idratazione importante, antiaggreganti piastrinici (meglio che anticoagulanti) sarebbero state efficaci.

In conclusione, chi scrive si astiene da giudicare casi singoli ed entrare nel merito di errori eventuali. Però, a mio giudizio, e con tutte le cautele, alcuni modi di pensare palesatisi in questa tragica circostanza fanno intravedere pericolose deriva verso l’inefficienza della pratica medica:

1)La Vigile Attesa. E’ un “meccanismo mentale” errato in quanto contrasta, come già accennato, con la Clinica (visitare il Malato e considerarlo nella sua completezza). Abolisce, tra l’altro, l’aureo principio “Prevenire è meglio che curare”. Come faccio a prevenire una cosa che non ho visto?

Essa   è stata un errore innanzitutto concettuale, di metodo, dato che contraddice la prevenzione e la diagnosi precoce, dogmi fondamentali d’ogni terapia. In concreto ha impedito di ricorrere alla Clinica, cioè alla visita del paziente riguardo alla patologia respiratoria: esame clinico facile, non invasivo, economico, facilmente ripetibile, indispensabile prima di ulteriori approfondimenti (quello radiologico in primis).

La “vigile attesa” ha permesso il diffondersi del contagio ed ha escluso a priori che l’inizio della malattia fosse silente, e quindi ha frenato la terapia precoce e la prevenzione della diffusione del contagio.

2) Mantenere isolate le varie competenze, spesso facendone prevalere una, trascurando le altre (Igiene, Epidemiologia, Virologia, Immunologia, Pneumologia etc). E’ deleterio effetto collaterale della superspecializzazione/settorializzazione della Medicina, la quale è certo un grande progresso se applicato alle pratiche terapeutiche. Però, in campo diagnostico fa correre il rischio di non esaminare e valutare il Paziente nella sua interezza.

3) Il ruolo del Medico di Famiglia è stato trascurato. Le direttive centralizzate lo hanno spesso disorientato, frenandolo dall’agire e, peggio, dal ragionare. A nostro parere i Protocolli sono certo una cosa necessaria. Però non devono essere dei diktat. Infatti sono emessi perché, da un lato, chi ne deroga sia obbligato a motivarlo con argomenti clinici; dall’altro chi ha redatto il protocollo ne discuta davanti a nuove “evidenze”. (Per inciso, “evidenza” è la maccheronica, un po’ buffa, traduzione italiana dell’inglese “evidence” che, semplicemente, in italiano è “prova”).

 

La triste vicenda del Covid ha pertanto messo alla prova la nostra capacità di reazione di fronte a problemi inattesi non solo dal punto di vista strettamente medico quali la condotta terapeutica, ma ha anche messo a nudo delle carenze nel ragionamento d’ordine generale.

Non si vuole valutare se vi siano o no stati errori terapeutici, né ricercare colpevoli; piuttosto vi è il sospetto comportamento che la “filosofia” che ha guidato i nostri comportamenti sia stata inadeguata.

(Per inciso, solo tardi si è parlato del (trascurato) ricambio d’aria e del comportamento e responsabilità di particelle d’umido e di polvere nella trasmissione del Virus. Altro che banchi mobili…..) 

 

Roberto Costanzo.

 

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Caro Roberto, 

da pneumologo intensivista di grande competenza e di lunga esperienza e da Medico sempre attento alla unitarietà ed alla complessità dei processi patologici, metti a fuoco problematiche e disfunzioni che, al di là dell’impegno dei singoli, hanno determinato una gestione della pandemia che non è stata ottimale. Certamente la pandemia ha generato una “infodemia” che, di pari passo con una eccessiva corsa al protagonismo mediatico da parte di molti, lungi dall’aiutare a contenere i devastanti effetti del virus, ha amplificato incertezze e paure. Può confortare il fatto che le difficoltà riscontrate in Italia non sono state superiori a quelle verificatisi in altri Paesi. Cionondimeno è tempo di riflettere su quanto accaduto con l’obiettivo di tutelarsi meglio nei confronti di altre simili possibili vicende future.

La tua lettera – che io trasferisco ai lettori di Salento Medico allo scopo di aprire un dibattito sereno sull’argomento – è in tutto condivisibile. In particolare mi preme sottolineare quello che tu scrivi rispetto alla visione “spezzettata” della malattia, divenuta terreno di scontro di tanti super-specialisti di settore, spesso “infettati” dal bisogno di apparire ad ogni costo, con la conseguente inevitabile e drammatica carenza di una visione unitaria di “organismo“, e tale carenza ha certamente  pesato in termini di morbilità e mortalità.

La stessa “vigile attesa” sembra essere stato il risultato di un “ragionamento ragionieristico” basato sul calcolo delle limitate risorse disponibili piuttosto che l’esito di un “ragionamento clinico” fondato su argomentazioni scientifiche. 

Il ragionamento clinico si avvale ovviamente di contenuti, ma necessita primariamente di un “metodo” affinchè l’analisi dei contenuti possa procedere   verso una sintesi corretta. 

Solo grazie a questo modo di procedere, il dr. Google non fa paura a noi Medici. 

Il “metodo” fa la differenza. Lo abbiamo imparato nel corso di lunghi anni  sui “ banchi”  dell’ Università , degli Ospedali e degli Ambulatori.   Se perdiamo il “metodo”, finiamo di “essere“  Medici .

(Silvio Colonna)

 

Dott. Roberto Costanzo

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