Numero 2 – 2021
Scritto dal Dr. Tommaso Fiore
LA SANITA’ PUBBLICA STUDIA E LAVORA PERCHE’ UNA POPOLAZIONE SIA PIU’ SANA POSSIBILE
Ho ascoltato con molto interesse l’audizione alla Camera del Ministro Speranza del 17 marzo u.s., con relativo successivo dibattito. Mentre egli illustrava il piano del governo per l’uso dei quattrini del Recovery Fund alla bisogna riservati, e già sorgeva un interessante dibattito tra “Casa di Comunità” e “Casa della Salute”, una domanda si affacciava alla mia mente: dove si formeranno i quadri per la sanità territoriale di cui da anni si parla? Sta per affacciarsi una committenza forte, armata di denti di drago, che in un autorevole e serrato confronto richieda alle Università e alle loro Scuole di Medicina una riflessione sul tema? E le Regioni saranno della partita? Perché infrastrutturare il territorio in sanità non è censire tutti i malati di quel luogo, fornire loro a domicilio un qualche sistema di interlocuzione con una centrale e un biglietto con sopra scritto cosa fare e dove andare in caso di bisogno più o meno urgente; e non è nemmeno ricostruire una rete di poliambulatori di quartiere, aggregare in un unico studio i medici di medicina generale etc etc: o almeno, non è solo questo. E ancora, è veramente quella la soluzione dei nostri problemi, drammaticamente evidenziati dalla pandemia?
La Fondazione CDC (Center for Disease Control and Prevention) definisce la sanità “pubblica” come “la scienza che protegge e migliora la salute delle persone e delle loro comunità” (https://www.cdcfoundation.org/what-public-health). I professionisti della salute pubblica lavorano per prevenire la diffusione di malattie in una particolare popolazione, la cui dimensione è definita da più fattori, uno intrinseco alla malattia e alle sue cause e uno estrinseco – dimensione amministrativa predefinita -. Fa parte delle loro attività, in base a studi opportuni, prendere provvedimenti per garantire che una popolazione abbia cibo, acqua e aria puliti. Essi, approfondendo i modelli di varie malattie e come queste possono influenzare una popolazione, interagiscono con i decisori politici secondo modalità anch’esse predefinite.
Per esempio, durante una epidemia come quella del covid è compito loro, sulla base dei dati disponibili e di metodi accettati dalla comunità scientifica, definire i programmi di tracciamento e isolamento in un determinato territorio che, condivisi e finanziati dalle Autorità preposte, sono poi realizzati e analizzati. O, ancora, predisporre la modulazione dei programmi vaccinali. In estrema sintesi la sanità pubblica è quella parte di scienza medica che studia e lavora perché una popolazione sia più sana possibile. Essa è quindi cosa diversa dalla medicina clinica il cui focus primario è il trattamento dell’individuo dopo che si sia ammalato. In Italia la sanità pubblica ha una storia lunga e gloriosa che nasce nel ‘700, anche se in Italia meridionale si affaccia solo durante il decennio murattiano.
Con la Legge Crispi-Pagliani del 1888 si consolida e costituisce un caposaldo della costruzione dello Stato unitario. Per li rami, i Dipartimenti di Prevenzione delle ASL ne sono gli eredi. I quadri vengono in genere fuori dalle Scuole di Specializzazione in Igiene, devono essere esperti in biostatistica ed epidemiologia, avere competenze molto ampie sui determinanti delle malattie e sulle tecniche per contenerli o eliminarli, in collaborazione con altri professionisti. E’ da notare però che, negli ultimi decenni le Scuole di Specializzazione sopradette si sono molto impegnate nella formazione di professionisti ad orientamento gestionale, atti a ricoprire, in competizione con altre figure provenienti da formazioni diverse, ruoli apicali nelle Direzioni Strategiche delle ASL.
IL MEDICO DI COMUNITA’ REALIZZA L’INTEGRAZIONE TRA SOCIALE E SANITARIO
Pur concordando nei fini, la salute “comunitaria” adotta un approccio diverso per mantenere una popolazione sana. Il lavoro dei professionisti della salute comunitaria, secondo il Center for Disease Control and Prevention (CDC), cit., “aiuta a ridurre i divari di salute causati da differenze di razza ed etnia, posizione, stato sociale, reddito e altri fattori che possono influenzare la salute”. Se mi è permessa una semplificazione, il medico di comunità contestualizza la malattia per aiutare a risolverla, se presente, e cerca di non farla ripresentare. Realizza o guida l’integrazione tra sociale e sanitario e costituisce in pratica l’anello di congiunzione tra medicina dell’individuo e sanità pubblica. Il mestiere più delicato e difficile, forse, che, ovviamente, ha bisogno di una formazione specifica (e, in Italia, di tanta ricerca). I quadri dirigenti in Italia si formano attualmente per lo più nei Distretti Socio-Sanitari, attraverso corsi dedicati. Alcune grandi Università e persino qualche Regione – la Regione Puglia in passato – hanno dedicato master o corsi specifici alla formazione dei Direttori di Distretto, che peraltro non necessariamente, secondo l’attuale normativa, devono essere medici.
Cosa fanno quindi le Scuole di Medicina attualmente? Si occupano quasi esclusivamente di formare professionisti per la medicina dell’individuo, la clinica. In sostanza non hanno abbandonato la loro mission principale da quando sono nate (cfr. Michel Foucault, Nascita della clinica, 1963). Nel corso dei decenni, hanno strutturato un percorso “classico”, elaborato in Germania nella seconda metà dell’800 e diffuso in tutto il mondo, che ha resistito a tutti i tentativi di riforma e trasformazione, basato sulla separazione tra scienze di base (dalla forma alla funzione alla patologia “generale”) e clinica (sempre più declinata al plurale).
L’accumulo progressivo di una quantità enorme di ricerche e approfondimenti ha portato alla sostanziale rinuncia da parte delle Scuole di Medicina a fornire alla società un “prodotto finito”. Per quanto permanga in Italia il rito della “abilitazione” professionale, tutti sappiamo che in qualche modo la vera abilitazione avviene dopo un ulteriore percorso di studi o almeno di pratica professionale guidata. La Laurea in medicina è un corso di preparazione alle Scuole di Specializzazione, incardinate nelle Università dal punto di vista giuridico, ma di fatto nelle Scuole di Medicina, le strutture che hanno sostituito le vecchie Facoltà. Il peso accademico dei clinici è generalmente più forte di quello dei “biologi”, e questo sembra ovvio dal momento che sono questi ultimi ad immettere il prodotto finito sul vorace mercato della salute. La figura professionale più vicina al medico di comunità è in Italia il Medico di Medicina Generale, se non altro per questioni di prossimità. Le Università non hanno alcun ruolo formale nel rilascio del diploma di formazione specifica in medicina generale, a differenza di altri grandi paesi europei (Francesco Carelli, Italian Council Member dell’Euract -European Academy of Teachers in General Practice and Family Medicine- se ne è a lungo occupato).
I motivi di questo abbandono di campo da parte delle Università italiane, almeno dal punto di vista culturale, mi sono abbastanza chiari, si tratta di miopia condita di disprezzo dello “specialista” nei confronti del “generico”. Dal punto di vista politico-istituzionale la cosa è patognomonica della debolezza, anche culturale, della committenza. Per fare un esempio, le Regioni finanziano borse di formazione specialistica, cattedre universitarie, ma non incentivano finanziariamente un interesse delle Università nel campo.
LE UNIVERSITA’ TENDONO A VALORIZZARE LA MEDICINA SPECIALISTICA
Volendo riassumere il quadro, le Scuole di Medicina in Italia tendono a valorizzare la medicina clinica specialistica con buona pace da un lato della ricerca di base, dall’altra della medicina di comunità, mentre le fondamentali nozioni di igiene e delle scienze ad essa collegate non innervano l’intero triennio clinico, quasi fossero pari ad una qualsiasi disciplina clinica, ma si curvano ad un’ottica specialistica. Qua e là si discute del rapporto tra scienze di base e scienze cliniche e c’è persino una Scuola Medica in Italia, il S’Anna di Pisa, orientata alla ricerca. Si tratta, nell’ultimo caso, di una cosa molto presente in Europa e nel mondo, per il rapporto crescente tra ricerca di base e “sviluppo”, dal dopoguerra in poi, direi. Ma che non ha invertito la tendenza di fondo, che vede adesso travalicare lo specialismo verso la “precisione”, allontanandosi sempre di più dalla “comunità” e dal “pubblico”.
Per quanto si possa dire che in Italia il fenomeno assuma caratteri grotteschi, la tendenza è molto più larga ed esplorarne le traiettorie in ciascun grande paese è superiore alle mie forze. Qui mi limito a ricordare che la carta di Bologna (Macha W. Incompatible With Bologna? The Two-Cycle Degree Structure in Medical Education in the EHEA. WENR December 11, 2018) è certamente servita per migliorare i rapporti tra Accademie Europee e migliorare la qualità dell’Erasmus, ma non ha scalfito autonomie e soprattutto non ha fatto avviare un dibattito europeo sulle figure professionali che devono essere presenti insieme ai clinici perché la salute sia tutelata e sviluppata, oltre che riparata alla bisogna. Rileggere oggi Illich è certamente utile, a patto che si accetti il paradigma di uscire con la scienza dagli errori della scienza. L’attuale drammatico momento potrebbe essere l’occasione giusta per parlare seriamente di formazione medica, a meno di non pensare che aggiungere al curriculum qualche nozione pratica di ventilazione artificiale, togliendo un po’ di determinanti sociali, sia la soluzione giusta (Goldfarb S. Med school needs an overhaul. The Wall Street Journal April 13, 2020).

Professore Ordinario di Anestesiologia e Rianimazione presso l’Università degli Studi di Bari, ora fuori ruolo.
La sua attività di Clinico si è svolta tutta nell’ambito del Policlinico di Bari sin dalla Laurea (1972) in tutti i settori dell’anestesia e della rianimazione, soprattutto in cardio-anestesia e nella chirurgia dei trapianti.
La sua attività di ricerca scientifica ha riguardato in particolare l’emodinamica e la meccanica respiratoria, ed è stata espressa in centinaia di pubblicazioni e di relazioni in ambito nazionale ed internazionale.
Tommaso Fiore è stato – e lo è tuttora- un “Professore” nel senso più autentico del termine: “Professore” non solo nella intensa attività didattica espletata nelle aule universitarie, ma anche e soprattutto “Professore” nelle sale operatorie, nel centro di rianimazione, nei corridoi del Policlinico, nelle sedi congressuali, nelle telefonate alle quali mai si sottrae, sempre disponibile e sempre prodigo di consigli e di suggerimenti. In sintesi un Maestro ed un Amico, tuttora punto di riferimento per gli Anestesisti-Rianimatori pugliesi.
Il Prof. Fiore è stato anche Assessore alle Politiche della Salute (Regione Puglia) dal 06 febbraio 2009 al 24 gennaio 2012, in un periodo piuttosto difficile per la sanità pugliese, dando prova di grande equilibrio e competenza. LA REDAZIONE DI SALENTO MEDICO