DIFFICILE PREVEDERE LE CONSEGUENZE DEGLI INEVITABILI ERRORI INIZIALI
L’emergenza sanitaria in atto ha colto impreparato l’intero Pianeta. La novità dell’agente eziologico, la singolarità delle manifestazioni cliniche -spesso ingannevoli e falsamente tranquillizzanti soprattutto all’esordio della malattia; la mancanza di una terapia causale e le incertezze perfino sui rimedi sintomatici e sui danni (veri o presunti) delle associazioni con farmaci di uso comune per malattie croniche di ampia diffusione, hanno creato disorientamento nel mondo scientifico e sconcerto nell’opinione pubblica; e certamente concausato una catena di errori iniziali responsabili della più ampia diffusione dell’epidemia e del peggioramento della prognosi della malattia.
Come sempre, è facile –ex post– giudicare con severità chi abbia avuto l’onere di decidere in tempi brevi su temi di natura sanitaria, politica, economica: sia per i percorsi di diagnosi e di cura del singolo individuo malato, sia per le strategie di prevenzione, con le ovvie ricadute politiche e sociali che tutto questo ha comportato. Ricordiamo, tra i tanti, l’errore grossolano di lasciare a domicilio (privi del controllo medico e di qualsiasi cura) i malati di Covid-19; con l’unico risultato di peggiorarne drammaticamente la prognosi, in particolare per coloro che hanno sviluppato la malattia in forma grave e che sono giunti, infine, nelle rianimazioni in condizioni disperate.
Ricordiamo, ancora, gli errori di identificazione dei soggetti infetti, seguiti dalla drammatica diffusione della malattia a vasti gruppi di popolazione che, fortunatamente, si è imparato a tracciare ed isolare, nonostante la carenza di uomini e mezzi ancora irrisolta a valle di un trimestre drammatico che si chiude con interrogativi inquietanti e “minacce” di rese dei conti a venire. Soprattutto nelle aree del Paese più colpite dall’epidemia è emersa la solitudine drammatica dei medici del territorio (in particolare dei medici di medicina generale e di continuità assistenziale): lasciati senza mezzi, liberi di scegliere se immolarsi divenendo al contempo vittime e diffusori dell’epidemia; ovvero (come pure è stato autorevolmente suggerito) di abbandonare i loro assistiti.
Lasciando a questi ultimi, nella migliore delle ipotesi, la scarna consolazione di valutazioni telefoniche, in tempi normali oggetto di censure disciplinari e medico forensi poiché evidente indizio della peggiore negligenza del medico che rifiuti la visita al proprio assistito. Gli ospedali hanno dovuto proteggersi dai pazienti e dagli stessi operatori; e dove questo non è avvenuto tempestivamente sono divenuti essi stessi fonti di diffusione ed amplificazione del contagio.
Ancor più drammatiche le conseguenze per i soggetti fragili, soprattutto istituzionalizzati, duramente colpiti dalle forme più gravi della malattia ad elevata percentuale di esito infausto.
In simile contesto, aggravato dalla drammatica contingenza economica e sociale, è logico attendersi un incremento esponenziale di rivendicazioni da coloro che hanno subito danni a causa dell’epidemia: sia con azioni penali per richiedere la punizione dei singoli professionisti; ovvero in sede civile, finalizzate al risarcimento del danno, da ultimo – dalla promulgazione della legge Gelli-Bianco – più agevole se agita nei confronti della struttura sanitaria piuttosto che del singolo professionista.
E tutti gli operatori sanitari coinvolti nell’emergenza COVID hanno coscienza piena delle costanti violazioni dei principii fondamentali di diligenza e di prudenza, obbligate dalla condizione di costante precarietà ed incertezza determinata dall’epidemia; e, per questo, fuori dal controllo dei singoli professionisti.
E così, per proteggere gli eroi (appellativo romantico legato, a mio avviso, al transitorio stato emozionale dei più) da prevedibili e ingiustificate rivendicazioni giudiziarie, da più parti si è pensato a norme che, soltanto con riferimento all’emergenza COVID, prevedano esimenti di responsabilità, sia in ambito penale, sia in sede civile.
Purtroppo tra le lodevoli iniziative volte davvero ad alleviare lo stato di tensione -già estremo- dei professionisti sanitari, si sono registrati tentativi di creare scudi penali assoluti non tanto a vantaggio di chi lavora in trincea assumendosene tutti i rischi; bensì dei decisori -politici, amministratori e datori di lavoro.
LA LEGGE GELLI-BIANCO E LA RESPONSABILITA’ PENALE DEGLI OPERATORI
Al di là delle speculazioni ideologiche di segno opposto e finalizzate a tutt’altro che a risolvere le spinose questioni derivate dall’ignoranza (nel senso più nobile del termine) che avvolge ancor oggi numerose questioni di primaria importanza correlate a COVID, è senza dubbio necessario predisporre strumenti normativi che, da un lato, consentano di risarcire i soggetti danneggiati a causa delle inefficienze del sistema nel corso dell’emergenza; e dall’altro di tenere esenti da responsabilità i professionisti -divenuti essi stessi soggetti fragili per i motivi che preciseremo tra breve- che hanno operato ultra vires con risorse umane e tecnologiche insufficienti e conoscenze precarie e contraddittorie.
Non abbiamo dubbi che il medico sia privo delle specifiche competenze per scrivere testi di legge. E però, come accade tipicamente in ambito medico forense, egli può aiutare a delineare temi tecnici e contesti operativi, utili a guidare i giuristi a “costruire” una norma dedicata all’“emergenza COVID” che valga ad evitare una iniqua sequela di iniziative giudiziarie contro i professionisti sanitari; e soprattutto di quanti, in aree particolarmente critiche del Paese, sono stati catapultati in una realtà degna della più funesta delle previsioni fantascientifiche.
Al legislatore è indispensabile prospettare, quindi, la realtà operativa che ha caratterizzato l’emergenza: sconvolgendo l’organizzazione delle strutture sanitarie, i criteri di reclutamento del personale ed i percorsi decisionali dedicati di diagnosi e cura di un quadro clinico inedito ed ignoto all’universo scientifico che ancor oggi tenta di comprenderne perfino i contorni epidemiologici e fisiopatologici; e, soprattutto, in assenza di una cura efficace.
L’improvvisa, inderogabile necessità di risorse umane ha imposto di dedicare al trattamento di COVID-19 professionisti sanitari formati in ambiti del tutto differenti dalle branche (infettivologia, pneumologia, anestesia e rianimazione) attinenti ai variegati quadri clinici correlati all’infezione da SARS-CoV-2; o, per essere più espliciti e tentare di trasferire i concetti tecnici all’ambito medico forense, da soggetti che, in situazioni ordinarie, avremmo considerato (a ragione) del tutto inesperti ed inadeguati ad assumere simili responsabilità, soprattutto in considerazione della assoluta novità e della difficoltà della materia.
Si tratta, quindi, in primo luogo, di pensare una norma che escluda la punibilità in relazione al primo profilo di censura che si profila in un numero certamente assai elevato di casi, per la grossolana imprudenza (avremmo detto senza tema di smentita in condizioni normali) del professionista sanitario che si dedichi a materie delle quali non ha esperienza e per le quali non ha alcuna formazione, né teorica né pratica.
Deve esservi protezione, in secondo luogo, anche per i casi di condotte negligenti indotte dalla medesima condizione di emergenza: per i numeri soverchianti dei pazienti da trattare, per la relativa -o assoluta- carenza di organico, per le condizioni lavorative sovente in violazione delle norme sulla disciplina dei turni di lavoro e per la stessa sicurezza degli operatori. I medesimi profili di negligenza potrebbero essere ravvisati nei confronti di coloro i quali, in corso ed a causa dell’epidemia, hanno visto ritardare gli accessi alle prestazioni sanitarie e, di conseguenza, la diagnosi ed il trattamento di patologie anche gravi, diverse da Covid.
Più agevole forse -perché, di fatto, già prevista dall’attuale quadro normativo- la protezione dei professionisti sanitari in relazione ai profili di imperizia (legati, quindi, all’inadeguatezza della risposta tecnica). A tale specifico riguardo si potrebbe trarre utile spunto dalla Sentenza della Suprema Corte -Sezioni Unite, 22 febbraio 2018, n.8770- pregevole sintesi delle precedenti interpretazioni di legittimità dell’art.6 della legge 8 marzo 2017 n.24 (legge Gelli Bianco), che ha riscritto i presupposti della responsabilità penale sanitaria.
Al di là delle risposte agli interrogativi sollevati dal conflitto giurisprudenziale che la materia aveva sollevato, la sentenza in questione riprende e discute una serie di temi in materia di responsabilità sanitaria. Tra questi, di particolare rilievo ai fini delle questioni inerenti l’emergenza COVID, è certamente quello della definizione della colpa grave; o meglio, della demarcazione gravità/levità della colpa che – sempre ad avviso delle Sezioni Unite – presuppone altresì la misurazione della colpa sia in senso oggettivo che soggettivo e dunque la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell’agente e del suo grado di specializzazione; la problematicità o equivocità della vicenda; la particolare difficoltà delle condizioni in cui il medico ha operato; la difficoltà obiettiva di cogliere e collegare le informazioni cliniche; il grado di atipicità e novità della situazione; la impellenza; la motivazione della condotta.
LE SENTENZE DELLA SUPREMA CORTE AIUTANO A CAPIRE
Ne consegue -prosegue la Corte- che la valutazione sulla gravità della colpa (generica) debba essere effettuata “in concreto”, tenendo conto del parametro dell’homo eiusdem professionis et condicionis, che è quello del modello dell’agente operante in concreto, nelle specifiche condizioni concretizzatesi.
Ebbene -argomentano, ancora, i supremi Giudici- … merita di essere valorizzato il condivisibile e più recente orientamento delle sezioni penali che hanno comunque riconosciuto all’art. 2236 [Art.2236 c.c. – Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave] la valenza di principio di razionalità e regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, qualora il caso concreto imponga la soluzione del genere di problemi sopra evocati ovvero qualora si versi in una situazione di emergenza.
Ed ancora -prosegue la Corte merita di essere ancor oggi valorizzato è il fatto che, attraverso di esso, già prima della formulazione della norma che ha ancorato l’esonero da responsabilità al rispetto delle linee-guida e al grado della colpa, si fosse accreditato, anche in ambito penalistico, il principio secondo cui la condotta tenuta dal terapeuta non può non essere parametrata alla difficoltà tecnico-scientifica dell’intervento richiesto ed al contesto in cui esso si è svolto.
È significativo che le fattispecie esemplificate dalla Corte (specifiche condizioni dell’agente e del suo grado di specializzazione; la problematicità o equivocità della vicenda; la particolare difficoltà delle condizioni in cui il medico ha operato; la difficoltà obiettiva di cogliere e collegare le informazioni cliniche; il grado di atipicità e novità della situazione; la impellenza; la motivazione della condotta) evochino in maniera più che suggestiva proprio i temi dominanti dell’emergenza sanitaria in atto.
Fuori dalle sterili rivendicazioni di uno scudo penale assoluto -poco digeribile anche sul piano semantico oltre che per immediate riserve di legittimità costituzionale- sarebbe sufficiente, per l’aspetto penalistico, una norma di formulazione semplice e chiara (merce rara di questi tempi!), che ripercorresse, in sostanza, quel che le Sezioni Unite hanno sostenuto con forza; sottolineando che l’esimente (che operi ESCLUSIVAMENTE in relazione all’emergenza COVID) debba valere per tutti i profili della colpa definiti dall’art.43 del codice penale; e non soltanto per l’imperizia, come è avvenuto (con discutibili espressioni palesemente tautologiche che ne hanno per buona parte vanificato gli intenti iniziali) nell’ultima riforma della responsabilità sanitaria del marzo 2017 (legge Gelli-Bianco).
Va detto, ancora, che in materia di responsabilità civile, l’art.7 della legge 24/2017 ha molto ridimensionato la responsabilità individuale del professionista sanitario dipendente o, comunque, che operi a qualsiasi titolo presso strutture pubbliche o private; rendendo più agevole e conveniente l’azione risarcitoria nei confronti delle strutture (che rispondono contrattualmente) piuttosto che del singolo operatore/dipendente per il quale vigono le regole della responsabilità aquiliana.
Sarebbe auspicabile, in ogni caso, che -sempre con riferimento all’emergenza di cui si discute- fosse del tutto inibita la richiesta di risarcimento ai singoli professionisti; e sospese, altresì, le azioni di rivalsa delle strutture nei confronti dei dipendenti.
Decisamente più complessa -e riservata alle riflessioni dei giuristi e degli economisti- l’ipotesi di una norma che preveda il ristoro del danno iatrogeno COVID-correlato di natura indennitaria, svincolato, cioè, dalla responsabilità (degli operatori e/o della struttura) e con criteri economici propri prestabiliti (in analogia a quanto previsto dalla legge 25 febbraio 1992 n.210); con esborso monetario verosimilmente a carico dello Stato.
In alternativa potrebbe prospettarsi una differente regolamentazione dei criteri risarcitori: mediante l’individuazione di specifici parametri di valorizzazione economica del danno; ed anche, se del caso, prevedendo l’intervento economico di soggetti differenti dalle Aziende Sanitarie e dei loro assicuratori, al fine di evitare ripercussioni finanziarie insostenibili che potrebbero compromettere la tenuta dell’intero Sistema Sanitario a scapito della efficiente ed efficace erogazione delle prestazioni.
In attesa di tutto questo e come da sempre è regola costante, l’impegno dei professionisti sanitari non è mai mutato. E forse è proprio questo il segreto (da divulgare all’intero Pianeta) che ha consentito di superare complessità, incertezze e contraddizioni dei sistemi decisionali e di contenere, fino ad ora ed auspichiamo anche nel prossimo futuro, gli effetti drammatici dell’epidemia.
