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EDITORIALE_DE_GIORGI_IMG_EVIDENZA

ARRIVERA’ IL TEMPO IN CUI DOVREMO CERCARE DI CAPIRE QUANTO IL COVID-19 HA CAMBIATO IL MONDO

 

Immagino quando, tra molti anni, si racconteranno i giorni in cui i confini del nostro mondo senza confini divennero improvvisamente simili a quelli angusti di Orano. Una insignificante cittadina della costa algerina, sconvolta dalla peste nel racconto stupefatto e rassegnato di Camus. Quando la dimensione individuale divenne storia sociale, tragedia collettiva. Quando paura, rabbia e sfinimento divennero i colori delle giornate inaspettate.

Come raccontare l’avidità dell’inadeguatezza, centro gravitazionale pronto ad ingoiare ogni cosa. Inadeguatezza di tutto che racconta la fragilità di ognuno. Cittadini e sistemi che presi alla sprovvista si trovarono indifesi e incerti. Tra impaurita disciplina, certezza di spiegazioni improbabili e probabile incertezza di responsabilità diffuse. Preoccupazioni inconfessate.

Raccontare l’estremo commiato negato e di come ci si stanca anche della pietà, quando questa diventa inutile. Inadeguatezza dell’esordio, che il senno del poi colloca molto prima (acque reflue di molti mesi prima, nel 2019 evidenziavano e certificano già il virus, non a caso classificato in quell’anno). Sottolineando la differenza tra scienza e conoscenza.

Inadeguatezza di prospettiva: tutto cominciò con la necessità di non diffondere il panico, di rassicurare. Con il sottovalutare, con la pigrizia della mente, pronta ad abituarsi ad ogni cosa pur di non chiedersi perché. Allo stesso modo iniziano serpeggiando devastanti guerre e catastrofiche dittature.

 

NON SARA’ FACILE SPIEGARE UN EVENTO CHE HA SCONVOLTO TUTTI

Né sarà facile spiegare l’altalenante emotività. Le inconfessate paure del contagio, dell’errore, dell’ostracismo, dell’abitudine. L’angoscia di essere separati dai propri affetti, dalle proprie abitudini, dalle quotidiane certezze. Inadeguatezza del naufragio della solitudine, disperazione di scelte estreme, coinvolgimento di molti di noi dentro inattese e inedite competenze, troppo frettolosamente richieste, mentre non vi era il tempo di scoprire la differenza tra etica e legge. Scovando poi inaspettate potenzialità nascoste all’interno di ognuno, a farci confessare ancor di più inadeguati. L’azione diventata ago impazzito e incerto di una impietosa bussola oscillante tra dovere e diritto.

E poi i morti. Il loro urlo infinito e ingiusto, che ci siamo sforzati di trasformare in forza. Un riferimento morale, per dare un senso a ciò che non ci riesce di accettare. La stanchezza fisica e mentale, premessa di errore, promessa di resa, che rode l’anima e ci ha fatto sentire nudi davanti a noi stessi. Senza l’enfatico e retorico frastuono di chi plaude agli operatori sanitari. Scoprendo una realtà da sempre silenziosamente presente, vissuta in realtà solo come un breve intervallo idilliaco, una rapida vacanza per riprendere il fiato tra misconoscimento e disprezzo di prima e di dopo. Raccontati con le facili denunce, le vili aggressioni, la medicina difensiva, già pronte a riprendersi lo spazio interrotto.

Intendiamoci subito: definirci eroi è un’offesa che non accettiamo, perché sottende l’eccezionalità, l’incoscienza e la brevità temporale in cui si consuma l’eroismo stesso. La nostra storia professionale è invece l’ordinaria straordinarietà di un percorso di solidarietà, di compassione, di conoscenza, di arte, di studio, di aggiornamento, di prossimità, di giustizia.

Il Covid-19 è stato anche inadeguatezza dei paradigmi

L’Italia divisa in due: quella dei meriti e dei demeriti, dell’efficienza e dello spreco, del Nord e del Sud, è rimasta divisa dal Covid, ma con una sostanziale inversione epistemiologica. Si sprecò l’inadeguatezza delle spiegazioni. Ossia, se il motivo di una maggiore gravità e diffusione al Nord fosse legato a co-fattori, come l’inquinamento ambientale e industriale, riesce difficile spiegare come l’area tarantina – tragicamente e criticamente degradata – sia stata tra le maggiormente risparmiate. Se invece la spiegazione punta il dito sulla densità di popolazione e quindi la facilità diffusiva del contagio, riesce difficile spiegare le performances epidemiologiche dell’area napoletana. Essa è infatti la più densamente abitata non solo d’Italia, ma d’Europa).

Inadeguatezza di un sistema sanitario sicuramente tra i migliori nelle fondamentali enunciazioni legislative, ma il primo a traballare tra profondissime falle. In italico bilico tra perenne e affannosa rincorsa alle emergenze e sfoggio di eccellenze (per lo più private) in un territorio desertificato, per obbedire a categorie di sostenibilità economica e non sanitaria.

La rappresentazione di ciò è l’inadeguatezza perenne del numero di posti letto in terapie intensive. Infatti essi erano troppo pochi prima (vergognandoci del confronto con la vicina Germania), divenuti dopo poche settimane inutilmente troppi. Inadeguatezza del concetto di fondo. La terapia intensiva non è un posto letto o un “respiratore”. E’ piuttosto una cultura che ha il cardine gestionale nelle competenze di uomini, formati in lunghi anni di esperienza, di studio e di confronto con realtà scientifiche. Il cuore organizzativo nella flessibilità e nella complessità. La forza nella capacità di convergenza di specializzazioni diverse.

Come sembrano lontani di millenni e assolutamente inadeguati i tempi in cui scelte sciagurate si sono basate su tagli – più gravi e insopportabili nel Sud – ad ospedali, posti letto. Al blocco delle assunzioni e del turn over per il personale sanitario, al metro di misura delle performances legato alle giornate di degenza. Alle borse di studio per specializzazioni o formazione, contingentate e mai oggetto di contrattazione, alle misure inadeguate a dare risposte sanitarie congrue ad esigenze mutate, legate alla rilevanza crescente delle cronicità.

Ed ancora, alla poca attenzione riservata alla tecnologia obsoleta come poche, alla prevenzione, ghetto culturale o al massimo sterile esercitazione retorica. Alla ricerca come inutile lusso Ed infine, alla burocrazia indispensabile capestro.

Certamente inadeguata la gestione di quei maledetti giorni. Abbiamo pagato un prezzo troppo alto per improvvisazione, situazioni figlie di un passato fatto di scelte sciagurate. Il tutto senza mai condividere con chi in prima linea era pronto a fornire competenze, conoscenze e sintonie istituzionali come solo gli Ordini dei Medici avrebbero potuto.

Tuttavia non ci siamo certo chiamati fuori, ma abbiamo portato il nostro generoso apporto che riviene da valori profondi e fedeltà al nostro credo etico e professionale. Anche quando questo ha comportato il sacrificio della propria incolumità, pur di mantenere fede al patto stipulato con i cittadini di garantire il diritto fondamentale alla salute per tutti, sancito dalla Costituzione.

 

IL MEDICO DEVE RIAPPROPRIARSI DEL SUO RUOLO STORICO

E’ necessario ripensare non solo a nuovi mondi, ma anche a nuovi modi di vita. Un Nord efficiente e un Sud indolente hanno dimostrato di essere stereotipi inadeguati a descrivere soluzioni reali. Si è dimostrata poco utile l’efficienza se si immagina inscindibile dalla frenesia. Al contrario, potrà essere salvifica la lentezza mondata dall’indolenza .

Accanto alla necessaria velocità di decisioni immediate, abbiamo scoperto la lentezza come antidoto al dramma indotto dalla frenesia. Perché è proposta di stili di vita sostenibili, compatibili con l’ecosistema e la stessa natura dell’uomo.  Forse proprio la lentezza ci potrà salvare.

Lentezza non è andare piano, ma ritrovare una sintonia perduta con il ritmo vitale di sviluppo. Abbiamo trovato antiche radici, il valore della sobrietà, quello delle gioie semplici. In una cultura della vertiginosa velocità (causa ed effetto di ansia), riappropriamoci del “lento” diritto alla felicità e facciamone dono e promessa di vita nuova.

In questo modo, la questione sanitaria da problema gestionale improvvisamente è diventata possibilità di soluzioni. Front office di attenzioni, cruciale archetipo del diritto alla vita. Ma anche crocicchio decisivo di interessi sociali ed economici. In sostanza misura della democrazia e della civiltà.

Il Medico esca dall’effimera luce di una ribalta, pronta a ribaltare meriti e colpe e si riappropri di una luce propria, che poi è l’essenza di una straordinaria professione capace di offrire il bene fondamentale, quello della salute, grazie alle conoscenze conquistate: non più mezzo di un potere sapienziale, ma strumento di un patto condiviso.

E’ necessario che i Medici sappiano riappropriarsi di un ruolo storico: l’importanza nella società moderna della scienza della solidarietà, che sappia suggerire soluzioni e prospettive per superare fragilità e disuguaglianze, dovere di proteggere chi non ha la stessa possibilità di confrontarsi con il mondo. Ciò non tanto per un sentimento di vicinanza, di prossimità, quanto invece perché la pandemia mise a nudo l’unico progetto possibile per un nuovo umanesimo.

Non si può essere liberi e vivi nell’indifferenza, né si può prescindere dalla conoscenza scientifica come metodo di progresso e dall’organizzazione come ergonomia civile.

In quei giorni ci siamo sentiti un po’ tutti come il dottor Rieux, che al termine del dramma senza tempo descritto da Camus con la Peste, rimasto solo, confessa: “Non provo granché interesse, credo, per l’eroismo e la santità. Quel che mi interessa è essere un uomo”.

Il Medico nuovo diventi allora protagonista del nuovo umanesimo: ad esso è demandata la possibilità di rendere concretamente fruibili i diritti fondamentali alla salute, all’uguaglianza, alla libera determinazione, alla libertà della scienza, alla alleanza terapeutica, alla sicurezza, alla vita.

 

 

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Dr. De Giorgi Donato
Presidente OMCeO Lecce
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