Numero 4 – 2020
Scritto da Dr. Giulio Verrienti – Spec. NeuroFisiatra – Casa di Cura Villa Verde di Lecce / Clinica Neurologica di Innsbruck
UN QUESITO CHE SCONVOLGE MEDICI E PAZIENTI
Fin dall’antichità, in merito allo stato di coma, vengono regolarmente prodotte pagine di letteratura scientifica, contribuendo a favorire la comprensione di tale condizione clinica. Tuttavia, nonostante i crescenti sforzi dei clinici – concentrati soprattutto nell’ ultimo secolo grazie al progresso delle tecniche di anestesia rianimazione – la piena conoscenza dello stato di coma risulta ancora tutt’oggi incompleta. Uno dei principali motivi di ciò, risiede nell’ estrema variabilità, da una parte, dei meccanismi che conducono al coma e dall’ altra, delle diverse caratteristiche di presentazione clinica, una volta che il coma “si è consolidato”. Risulta dunque naturale la domanda che spesso ci poniamo di fronte ad un paziente con alterato stato di coscienza è la stessa: “è in coma oppure no?”. Mentre in un reparto di rianimazione, avvalendosi delle opportune misure di sicurezza e di supporto delle funzioni vitali, la risposta a tale domanda può ricavarsi (quasi) sempre da un’attenta valutazione clinica, in ambiente extra ospedaliero il quesito può nascondere delle insidie, non sempre così banali. Cerchiamo di fare ordine.
Punto fermo della trattazione rimane la definizione di coma, che pertanto può essere descritto – rifacendoci ai lavori dei colleghi neurologi statunitensi Fred Plum e Jerome Posner, autori della definizione “moderna” di coma – come la non responsività: gli occhi del paziente sono chiusi e il paziente stesso non può essere risvegliato. Risulta, quindi, necessario introdurre il concetto di coscienza. Il termine coscienza deriva dal verbo latino “conscire” (sapere, conoscere) e non indica la sola percezione della realtà, ma anche la consapevolezza della propria persona, contestualizzata in un ambiente temporale e spaziale circostante. Tale percezione è per definizione continua, ed inoltre, presuppone una riproducibile reattività alle stimolazioni esterne.
Acquisito il concetto di coscienza, bisogna distinguere tra le due componenti che per definizione la contraddistinguono e che nella loro integrità ed unità la compongono: la vigilanza e la consapevolezza. Cercando di essere più pragmatici, vediamo cosa si intende da un punto di vista clinico.
La vigilanza corrisponde allo stato di veglia e presuppone l’apertura spontanea degli occhi. Le strutture cerebrali che regolano il livello di vigilanza sono localizzate a livello del tronco encefalico e dei talami. La consapevolezza, invece, corrisponde alla capacità del paziente, una volta esclusa la presenza di un’afasia sensitiva, di eseguire ordini (ad es. chiudere gli occhi).
La distinzione tra queste due componenti non è solo didattica ma ha risvolti fondamentali che non possono non influire sulle scelte del clinico. Di fatti, un individuo può essere, per esempio, vigile (“con occhi aperti”) ma non consapevole dell’ambiente circostante e quindi incapace di reagire adeguatamente alle stimolazioni esterne. Questa situazione, di frequente riscontro negli stati vegetativi quali esiti di coma post traumatici o post anossici, è spesso fonte di false speranze nei familiari dei nostri assistiti, i quali, vedendo il paziente “risvegliarsi”, possono ritenere “il peggio ormai passato”. Al contrario, la coscienza non può e non deve essere intesa che come un “continuum” nelle sue alterazioni, in un range comprendente lo stato di pieno coma (coscienza abolita), il sonno non-REM e REM, l’anestesia profonda, lo stato di coscienza minima sino ad arrivare ad uno stato di piena vigilanza e consapevolezza (piena coscienza).
Inoltre, da un punto di vista meramente clinico, è di fondamentale importanza – soprattutto nella prima descrizione di un paziente – specificare il grado del deterioramento della coscienza. Accanto al coma, bisogna distinguere il sopore dallo stupor, laddove nello stupor a differenza del sopore il paziente può essere risvegliato solo da un vigoroso stimolo fisico doloroso, spesso “ricadendo nello stato precedente dopo cessazione della stimolazione”.
Per una comprensione più accurata, si ribadisce qui che il confine tra queste condizioni non è netto, ma al contrario molto labile, laddove spesso e volentieri si assiste ad una graduale, purtroppo non sempre crescente, transizione tra livelli di coscienza diversi.
Il coma nella sua espressione acuta: come riconoscerlo e cosa valutare
Per tornare alla domanda che ci siamo posti all’ inizio della presente trattazione, bisogna a questo punto ribadire che la massima alterazione dello stato coscienza corrisponde al coma, mentre alterazioni più “lievi”, allo stato di fatto più “superficiali” della stessa corrispondono a fasi che potenzialmente possono precedere (ma anche seguire) uno stato di coma consolidato. In ogni caso, le cause che possono condurre a disturbi di coscienza, e quindi al coma, sono i medesimi. Tutto ciò che segue è da riferirsi alla valutazione del paziente con un disturbo della coscienza, sia che essa avvenga in ambiente extra- ma anche intraospedaliera, a prescindere dal punto del decorso clinico in cui essa si effettui.
In generale, il meccanismo sotteso al coma o all’alterazione della coscienza consiste in una disfunzione di entrambi gli emisferi cerebrali oppure dei sistemi reticolari attivanti (noto anche come formazione reticolare ascendente). Per compromettere la coscienza, la disfunzione cerebrale deve essere bilaterale; ciò significa che disturbi a carico di un solo emisfero cerebrale, per quanto possano condurre a gravi deficit neurologici, non sono sufficienti – ammessa la piena funzionalità dell’emisfero controlaterale – a determinare un coma in senso stresso. Per quanto riguarda il sistema reticolare attivante, le sue alterazioni sono in genere conseguenza di ischemia, emorragia, ma anche di disturbi tossici o metabolici. A livello schematico si può comunque affermare che i meccanismi fondamentali che possono causare un’abolizione più o meno profonda della coscienza sono essenzialmente di due tipi:
- Distruzione anatomica di aree fondamentali del sistema nervoso centrale
- Gravi squilibri tossico/metabolici
Il coma da cause neurologiche e/o strutturali può essere causato da lesioni cerebrali di origine vascolare, infettiva, tumorale, traumatica, ma anche risultato di un deficit di ossigenazione cerebrale (insufficienza circolatoria acuta). Il coma traumatico è probabilmente la tipologia di coma che si verifica con più frequenza. Una compromissione dello stato di coscienza può inoltre derivare da un aumento della pressione intracranica, ma anche essere conseguenza di stati di male epilettici convulsivi e non convulsivi.
Il coma tossico/metabolico rappresenta un’imprescindibile diagnosi differenziale, in quanto, in presenza di una diagnosi tempestiva, è una delle possibili cause reversibili di coma. In questo senso è sempre obbligatorio escludere situazioni di ipo- e iperglicemia grave, gravi stati di iponatriemia, di acidosi e alcalosi metaboliche respiratorie, ipo- o ipercalcemie. Il coma tossico, dovuto all’ingestione di farmaci o sostanze a effetto sedativo ma anche determinato da avvelenamenti da metalli pesanti, cianuro, salicilati ecc. deve essere preso in considerazione tra le diagnosi differenziali. Nel caso tipico di alterazione della coscienza da intossicazione da benzodiazepine occorre ricordare che di sovente si tratta di un’urgenza, ma un’emergenza in questo caso si concretizza soprattutto in occasione di intossicazioni miste o con benzodiazepine molto sedative (Roipnol, Halcion). Qualora all’ ECG si nota la presenza di allungamenti del tratto QT o di slargamenti del QRS, è più lecito sospettare un’intossicazione da triciclici (quindi eventualmente rivalutare la somministrazione dell’antidoto flumazenil).
Dopo aver escluso una causa traumatica, può essere d’ausilio il ricorso a una sequenza mnemonica che racchiude le principali cause di coma quale, ad esempio il “I WATCH DEATH” (vedi allegato). In ogni caso le cause più frequenti di coma sono rappresentate da:
- Farmaci/sostanze tossiche (con o senza alcol): 40%.
- Arresto cardiaco: 25%.
- Ictus (emorragia parenchimale, esa, emorragia pontina o cerebellare, infarto troncale esteso): 20%.
- Patologie mediche generali: 15%
La valutazione di un paziente con crescenti disturbi della coscienza non può esimersi dalla quantificazione del danno tramite la nota Glasgow Coma Scale. Quest’ultima, creata inizialmente per valutare i pazienti con trauma cranico in quanto in grado di fornire un valore prognostico, per il coma di qualsiasi altra eziologia la scala viene usata perché è relativamente affidabile, misura oggettivamente la gravità della mancanza di risposta e può essere usata per il monitoraggio. La capacità di risvegliarsi viene valutata cercando di risvegliare i pazienti innanzitutto con comandi verbali, poi con stimoli non dolorosi, infine con stimoli dolorosi (p. es., pressione sulla cresta sopraorbitaria, sul letto ungueale, o sullo sterno). L’apertura degli occhi, una smorfia buccale e una risposta finalistica di evitamento degli arti dopo stimolazione dolorosa suggeriscono che la coscienza non è troppo alterata.
Nella valutazione del paziente incosciente bisogna essere in grado di segnalare eventuali:
1. Anomalie oculari: le pupille possono essere dilatate, miotiche, o anisocoriche. A questo proposito è sempre bene accertarsi dell’assenza di patologie oculari pregresse. Nel coma dovuto a lesioni strutturali, una o entrambe le pupille solitamente sono fisse fin dagli stadi precoci, ma nel coma dovuto a disturbi metabolici diffusi (encefalopatia tossico-metabolica) le risposte pupillari sono spesso conservate a lungo, nonostante queste risposte possano essere lente. In presenza di una reazione alla luce normale in un paziente con altri segni di sofferenza mesencefalica, si deve pensare a un’origine metabolica del coma. Il riflesso pupillare è spesso utilizzato come fattore prognostico, soprattutto quando questo si associa ad altri parametri come la Glasgow Coma Scale. Inoltre, in una prima valutazione si ritiene sempre indicata la descrizione della risposta al riflesso di minaccia (il cui recupero nei pazienti ipossici è posticipato rispetto ai coma post-traumatici), la perdita del riflesso oculocefalico (gli occhi non si muovono in risposta alla rotazione della testa) -una volta accertata l’ assenza di lesioni cervicali!-, del riflesso oculovestibolare (in setting ospedaliero, per esempio in concomitanza di immobilità cervicale e dopo aver verificato l’integrità della membrana timpanica) e dei riflessi corneali. Nei pazienti coscienti, l’irrigazione endoauricolare con 1 mL di acqua ghiacciata è spesso sufficiente ad indurre la deviazione oculare e il nistagmo e può essere utile ad escludere una non responsività del paziente su base psicogena.
Se gli occhi non si muovono o il movimento non è coniugato dopo l’irrigazione, l’integrità del tronco encefalico non è chiara e il coma è più profondo.
2- Disfunzione autonomica: comprende pattern respiratori anomali (respiro di Cheyne-Stokes o di Biot), ipo/ipertensione, anomalie del ritmo.
3- Disfunzione motoria: sono comprese flaccidità, emiparesi, asterixis, mioclono multifocale, postura da decorticazione (flessione dei gomiti con estensione degli arti inferiori) o da decerebrazione (estensione degli arti e intrarotazione delle spalle). La postura decorticata può insorgere a seguito di disturbi strutturali o metabolici ed indica danni emisferici con conservazione dei centri motori nella porzione superiore del tronco encefalico (p. es., tratto rubro-spinale). Una postura decerebrata, indice di compromissione delle vie passanti per il tronco superiore, può anche verificarsi, anche se meno frequentemente, nei disturbi diffusi, come l’encefalopatia anossica.
4- Altri sintomi: se il tronco encefalico è compromesso, nausea, vomito, meningismo, cefalea occipitale, atassia.
Nella valutazione iniziale del paziente con un disturbo della coscienza bisogna tenere presente tre elementi:
1. Ogni alterazione dello stato di coscienza è un’emergenza che costituisce rischio vitale.
2. È indispensabile individuare la causa alla base del coma.
3. Trattare le cause potenzialmente reversibili.
COMA: punto di non ritorno o punto di partenza?
Il concetto primitivo di coma, quale fase immediatamente precedente all’ exitus, si è drasticamente modificato nell’ ultimo secolo, soprattutto grazie ai progressi in ambito di medicina di urgenza e di anestesia-rianimazione. La possibilità di defibrillazione, intubazione e ventilazione meccanica, la continua scoperta di nuovi farmaci ed in generale i miglioramenti dell’assistenza medica in urgenza, se da un lato hanno permesso il ripristino delle funzioni vitali in pazienti destinati a esiti infausti, dall’ altro hanno gettato le basi per l’aumento esponenziale di quei pazienti che, una volta “stabilizzati”, possono essere ricoverati in stato di coma. La prognosi risulta spesso dipendere dalla causa specifica, dalla durata e dalla profondità dell’alterazione della coscienza. Per esempio, in caso di ipossia, l’assenza di riflessi del tronco cerebrale indica una prognosi sfavorevole. Al contrario, nei casi di coma reversibile i pazienti possono perdere tutti i riflessi del tronco encefalico e tutte le risposte motorie, ma nel decorso clinico possono in seguito, paradossalmente, recuperare completamente. Se i riflessi del tronco cerebrale sono assenti al primo giorno o assenti in seguito, è indicato l’accertamento di morte. La prognosi è sfavorevole se i pazienti presentano uno dei seguenti reperti (in assenza di ipotermia indotta):
- Nessun riflesso pupillare alla luce 24-72 h dopo l’arresto cardiaco
- Nessun riflesso corneale 72 h dopo l’arresto cardiaco
- Stato di male epilettico mioclonico che si verifica da 24 a 48 h dopo l’arresto cardiaco
- Postura in estensione o nessuna risposta indotta dallo stimolo doloroso 72 h dopo l’arresto cardiaco
- Nessuna risposta 20 millisecondi (N20) dopo la stimolazione del potenziale evocato somatosensoriale
- Dosaggio plasmatico dell’enolasi neurone-specifica > 33 mcg/L
Escludendo l’exitus quale evoluzione infausta del coma, una delle possibili evoluzioni del coma consiste nello stato vegetativo, che si definisce come mancanza di mancanza di consapevolezza, ma, contemporaneamente, presenza di vigilanza. Sul piano pratico, il paziente non è cosciente di sè ma è sveglio e mostra tipicamente un ciclo sonno-veglia. Le risposte agli stimoli sono presenti, ma sono deboli e non finalizzate. Da un punto di vista meramente clinico, lo stato vegetativo riflette un danno diffuso alla corteccia (annullando la funzione cognitiva) in presenza di un tronco encefalico e un diencefalo funzionalmente intatti. Lo stato vegetativo si manifesta, spesso, in caso di lesioni da accelerazione-decelerazione che si associano a danno assonale diffuso. Tradizionalmente, uno stato vegetativo che mostra una durata maggiore di 1 mese è considerato uno stato vegetativo persistente e viene definito irreversibile quando dura più di 12 mesi nei pazienti traumatizzati o più di 6 mesi in quelli non traumatizzati.
Simile allo stato vegetativo, lo stato di minima coscienza si caratterizza, tuttavia, per una significativa interazione con l’ambiente. I pazienti in stato di minima coscienza possono mostrare un contatto visivo con persone od oggetti; possono afferrare intenzionalmente gli oggetti; possono rispondere con pochi gesti o parole. Nel complesso si descrive di sovente in questi pazienti un lento miglioramento, che risulta, tuttavia, spesso limitato. Del resto, pazienti in stato vegetativo possono raggiungere uno stato di minima coscienza, talvolta anche periodi di tempo mediamente lunghi dopo il danno cerebrale originale.
Prognosticamente, solo una percentuale ridotta di pazienti in stato vegetativo dopo 5 anni recupera la capacità di comunicare e comprendere, e solo una porzione ancora minore di pazienti torna a essere indipendente nelle attività della vita quotidiana.
Quali sono quindi i bisogni dei pazienti in coma o eventualmente in stato vegetativo? La risposta, in base alle conoscenze attuali, consiste in un approccio plurimodale, che comprenda una riabilitazione multidisciplinare precoce, la stimolazione farmacologica appropriata nei tempi e nei dosaggi, la prevenzione dei danni secondari e terziari, accanto ovviamente al trattamento delle cause e delle conseguenze che hanno portato al danno cerebrale.
I trattamenti necessari, attuale oggetto di molteplici studi, dovranno essere, a nostro avviso, sempre più orientati allo sviluppo di terapie, eventualmente farmacologiche, che favoriscano meccanismi di riparazione cellullare e/o eventualmente favoriscano la plasticità cerebrale delle aree esenti dal danno.
Allegato 1
Allegato 2
