Numero 2 – 2020
Scritto da Dr. Maurizio Muratore Reumatologo
TERZA ETA’: RUOLO E DEFINIZIONE AL TEMPO DEL CORONAVIRUS
“Anziani isolati fino a fine anno. È in gioco la vita”. Così si è espressa la presidente della Commissione UE Ursula Von der Leyen in un’intervista alla “Bild am Sonntag” del 12 aprile scorso. “Spero che venga sviluppato un vaccino entro fine anno. Senza un vaccino, bisogna limitare il più possibile i contatti con gli anziani, che devono avere molta pazienza. So che è difficile, e che la solitudine opprime, ma è in ballo la vita. Dobbiamo continuare ad essere disciplinati. Dobbiamo imparare a convivere con il virus per molti mesi, forse fino al prossimo anno”, dichiara ancora von der Leyen, alludendo – neanche troppo velatamente – ad una quarantena prolungata per i soggetti più ad alto rischio, tra cui certamente sembrano rientrarvi le persone anziane, che potrebbero pertanto dover rimanere in lockdown “fino alla fine dell’anno” al fine di evitare il rischio di contagio da coronavirus.
Ma chi è l’anziano?
Non ci si pensa finché si è in forze o, meglio, si prova a non farlo. Ma, a ben vedere, l’insorgere dell’invecchiamento potrebbe essere già considerato quel momento in cui si completa e stabilizza lo sviluppo fisico della persona, ovvero superati i (circa) 20 anni di età. Chiaramente è una provocazione, per quanto fondata, ma introduce, e rivela, la complessità con cui si tenta da tempi immemori di tratteggiare e delineare la definizione di “vecchiaia”, o, meglio, di “senilità”.
L’invecchiamento può, infatti, essere interpretato come sviluppo, maturazione, acquisizione e potenziamento di nuove e numerose funzioni. Ma anche, peraltro, può essere utilizzato, più comunemente, per indicare un processo di decadimento e perdita progressiva delle proprie funzioni, restituendo all’espressione “invecchiamento” una connotazione di deterioramento, che meglio identifica la condizione di perdita di strutture e abilità.
Per tali ragioni, non si può valutare il processo di invecchiamento esclusivamente su basi o ragioni anagrafiche, ma vanno necessariamente presi altresì in considerazione altri fattori quali: (i) l’età biologica, che fa riferimento alla posizione raggiunta in riferimento al potenziale di vita; (ii) l’età psicologica, che concerne l’adattamento e l’autoconsapevolezza della persona; nonché (iii) l’età sociale, considerate le abitudini e i ruoli sociali, confrontati con le aspettative del gruppo e della società. Ancora oggi, tuttavia, una definizione univoca di anziano è difficoltosa, se non impossibile, da offrire; così come risulta problematico individuare puntualmente l’inizio del processo di invecchiamento, e ciò anche a seconda della sfumatura di significato che gli si intende attribuire. Inoltre, nella maggior parte dei casi, invecchiamento biologico, mentale e psicologico non vanno di pari passo, anzi – complicando così ulteriormente la rappresentazione di anziano e la percezione che egli stesso può avere di sé.
E allora quando si diventa “anziani”?
Si attribuisce a Otto Von Bismarck la “paternità” dei 65 anni come soglia di anzianità: correva l’anno 1889, quando, in Germania, veniva introdotto il primo sistema pensionistico. Tale soglia è rimasta invariata nel tempo fino al 63° Congresso Nazionale della SIGG (Società Italiana di Gerontologia e Geriatria) tenutosi a Roma, alla fine di Novembre del 2018. È in tale sede che è stata infatti portata a 75 anni, creando tra l’altro non poco scalpore. La nuova – dinamica – definizione di anzianità (o, per meglio dire, del concetto di anzianità) meglio si adatta, evidentemente, alle attuali performance fisiche e mentali dell’uomo e della donna moderni, che vivono in paesi sempre più sviluppati ed evoluti.
Considerato l’allungamento medio della speranza di vita alla nascita (in Italia è di 85 anni per le donne e 82 per gli uomini), il ritardato sviluppo di malattie e la dilazione della soglia di mortalità, è stata ideata una nuova “categoria di anzianità”, suddividendo i soggetti con più di 65 anni in chi appartiene alla terza età (stadio caratterizzato da buone condizioni di salute, da una ancora notevole disponibilità di risorse personali e una valida rete sociale di stimolo e protezione) e chi alla quarta età (fase contraddistinta invece dalla necessità di assistenza, dunque dalla dipendenza dal caregiver, e dal decadimento fisico e/o mentale). Secondo un’indagine condotta dalla “London School of Economics”, intervistate oltre 12mila over 65 in diversi Paesi, due ultrasessantacinquenni italiani su tre dichiarano di non sentirsi affatto «anziani»; quattro su dieci pensano che la vecchiaia inizi davvero solo dopo gli ottant’anni: incoscienza giovanilistica di una generazione, o visione realistica di una terza età che non ha più i capelli grigi?
Considerare anziano un 65enne oggi è (probabilmente) anacronistico: a questa età moltissimi si sentono fisicamente e psicologicamente bene, se non addirittura “alla grande”. Ma chi sono, allora, i veri anziani? Gli ultraottantenni? Spostare la vecchiaia dopo gli 80 anni è davvero troppo ottimistico?
Nel ripercorrere le parole del presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen, si intuisce come la cd. Fase 2 – ovvero l’attuazione di piano di ritorno alla normalità, ma limitata – abbia, quali criteri di riferimento, due parametri ben specifici: tipologia di lavoro ed età.
In questo panorama, gli ultimi a poter pertanto beneficiare di una normalità limitata (senza nemmeno una definizione temporale del ritardo rispetto alle altre categorie) sarà la categoria degli “anziani”, in quanto – automaticamente – “soggetti fragili”.
Per citare uno stimato collega, e amico, Prof. Numo, noto reumatologo barese, sembrerebbe che l’unico criterio informatore sia stato quello di qualche millennio addietro tanto caro a Terenzio: “Senectus ipsa morbus”.
A parere dello scrivente, sembrerebbe maggiormente opportuno individuare una definizione di “soggetto fragile”, in luogo di “soggetto anziano”. Non è logico considerare fragile un individuo sol perché in età avanzata sic et simpliciter. Semplicemente guardando la sua carta d’identità.
Si tratta di grossi numeri che riguardano una quota parte anche della popolazione lavorativa.
Procrastinare a data da destinarsi il ritorno alla “normalità limitata” per gli anziani, così come attuare una immotivata quarantena, è a mio avviso irrazionale e illogico. Anzi, controproducente. È noto infatti che:
- Anziani mantenuti in ambiente confinato e deprivati della possibilità di fare movimento vanno incontro ad un silenzioso ma progressivo aumento del rischio cardiaco e vascolare strettamente collegato alla persistente sedentarietà, con aumento di infarti ed ancor più ictus, oltre che peggioramento delle patologie metaboliche diabete etc.
- La mancanza di movimento fisico e di contatto sociale con altri individui, causa della restrizione in casa, indurrebbe un deterioramento dei processi cognitivi.
- Vi è una tendenza alla depressione, aggravata dal rimanere isolati anche se nel proprio ambiente domestico.
- La instabilità nella deambulazione, che si sviluppa ineluttabilmente in soggetti anziani rimasti a lungo in ambienti confinati, potrebbe facilmente tramutarsi in facili cadute, con conseguenti fratture di femore.
Da ultimo, è opportuno fare certune considerazioni anche di natura extra-medica. Esiste ad esempio una fetta non trascurabile di “anziani” che, anche in tarda età, svolgono attività professionali intellettualmente impegnative e gratificanti (imprenditori, liberi professionisti etc.). Costoro, se costretti al lockdown, sarebbero impossibilitati a svolgere tali professioni, con serio nocumento alla propria salute fisica e mentale. Una ulteriore porzione è composta ad esempio da quei soggetti anziani che fanno inesorabilmente parte, spesso, della organizzazione logistico-familiare: accompagnare nipoti a scuola, sbrigare pratiche di figli impegnati al lavoro etc. Mansione preziosa, che verrebbe negata da questa costrizione domiciliare.
Ferme restando le ormai note misure di protezione individuali, distanziamento e proibizione dell’agglomeramento che dovranno essere rigorosamente osservate da tutti, indipendentemente dall’età, è parere di chi scrive ritenere necessaria una attenta riflessione, e rivalutazione, del termine “anziano”, facendo un doveroso distinguo con il termine “fragile” – non necessariamente sinonimi –, e delle misure da adottarsi. Una precipitosa ed approssimativa restrizione e limitazione della libertà personale dell’“anziano”, meramente prendendo quale parametro di riferimento l’età anagrafica, si rivelerebbe pienamente ingiusta, ingiustificata ed altresì ingenerosa.
